Politica della citazione
Quanto irrita vedere riportate in modo discutibile idee e convinzioni di filosofi, scrittori, artisti. D’altronde la ripetizione erronea delle parole altrui, talvolta inconsapevole, più spesso perpetrata a fini strumentali, dilaga ovunque. Il copia e incolla è un esercizio diffuso, che appare infantilmente innocuo, mentre viola ogni etica del discorso.
Perché perdere tempo a citare? Forse per ammantarsi del privilegio del colto, per mostrare la propria erudizione? Eppure citare è molto di più. Lo insegnano i nostri maestri e basterebbe pensare all’andamento dialogico del Talmud. Lo insegna tutta la tradizione ebraica.
A ben guardare la citazione cela in sé qualcosa di profondo e ha a che fare non solo con l’etica, ma anche e soprattutto con la politica. Il grande filosofo della citazione è Walter Benjamin. È lui che ha scritto sulla forza messianica della citazione che interrompe il testo e in quello squarcio dà spazio alla voce che potrebbe essere sommersa, la salva e la riscatta. Ha scritto Benjamin: «Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante». Non sta forse in questa giustizia che si dispiega nella ripresa del passato, in una narrazione che è già redenzione, il fine dello storico? Ha scritto ancora Benjamin: «solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato. Vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation à l’ordre du jour” – e questo giorno è il giorno finale».
Donatella Di Cesare, filosofa