Se la pace scende in campo
A distanza ormai di un anno e mezzo dall’inizio della mia collaborazione con Moked (un onore del quale ringrazio ancora il direttore, Guido Vitale, la redazione e tutta l’UCEI), e acquistata una certa confidenza col mio autorevole pubblico, confesso di avere cambiato, in corso d’opera, non lo spunto del mio intervento settimanale (cosa abbastanza frequente e comprensibile), ma la qualità, il tono e lo spirito delle mie osservazioni. Avendo letto, infatti, alcune cronache e commenti dedicati, dalla stampa nostrana, alla partita di calcio disputata, la scorsa domenica 3 luglio, nello stadio di Ramallah, fra la rappresentanza palestinese e quella afghana, ero rimasto alquanto infastidito dall’ennesima dimostrazione di come i giornalisti, ogni volta che parlano di affari palestinesi, di qualsiasi natura, non sfuggano mai (anche quando non ce ne sarebbe alcun bisogno) al riflesso condizionato che li induce a sfruttare l’argomento per rivolgere critiche, più o meno malevole, a Israele. E così, anche in questa occasione, la competizione ha dato lo spunto per parlare dell’oppressiva occupazione militare che avrebbe fatto da cornice all’evento, per ricordare che a 100 metri dall’ingresso dello stadio si erge il famigerato ‘muro’, per rievocare la condizione dei profughi ecc.
E’ possibile, mi sono chiesto, che la Palestina debba essere soprattutto, per sempre e per tutti, “l’anti-Israele”? Non è triste che un popolo, meritevole di stima e rispetto, debba vedere ridotta la propria rappresentazione a quella di mero protagonista e vittima di un conflitto, senza alcuna considerazione “in positivo” della sua realtà e identità? Mi è anche venuto da pensare, con malinconia, al fatto che il pubblico israeliano – pur molto appassionato di calcio – non ha potuto assistere all’evento, per evidenti ragioni, e certamente in molti avrebbero desiderato farlo.
Ma, come ho detto, mentre coltivavo queste considerazioni, mi è venuto il dubbio di essere condizionato dal passato, dalla storia, e di essere per questo incapace di apprezzare dei segnali positivi che, quando si manifestano, meriterebbero invece di essere sottolineati e valorizzati. E il fatto che la società palestinese si impegni nella pratica sportiva, e tanta gente si raccolga per condividere insieme una gioiosa festa di popolo, è, indubbiamente, un evento molto positivo, che potrebbe generare, nel tempo, importanti effetti benefici. Penso soprattutto ai ragazzi e ai bambini, a cui una crudele propaganda di odio, per tanto tempo, ha saputo insegnare soltanto sentimenti di avversione, chiusura, vendetta, e che potrebbero invece essere indotti ad apprendere, finalmente, un altro linguaggio, a entrare in un nuovo orizzonte di emozioni e valori. A capire, a sentire che ci si può impegnare, giorno per giorno, per piccoli, semplici traguardi, che ci si può affrontare rispettandosi, si può essere avversari ma non nemici. Che è, poi, da sempre, il significato eterno e universale dello sport, l’esatto opposto della brutale semplificazione della guerra.
Accantono così, per una vola, le considerazioni amare, rivolgendo sinceri auguri di ogni successo agli atleti palestinesi. E sperando di potere anche assistere, in un futuro non troppo lontano, a una combattuta partita Palestina-Israele.
Francesco Lucrezi, storico