Davar Acher – Opinioni e azioni
La legge contro il boicottaggio di Israele è molto dura: carcere fino a 5 anni (in certi casi 10) e pene fino a 50.000 dollari o cinque volte il valore della merce boicottata, se è superiore; interdizione alle società che si uniscono al boicottaggio di operare. E’ giusto dunque protestare contro questo atto di “maccartismo” (così Gomel venerdì su queste pagine)? C’è un piccolo problema, che queste previsioni di pena non stanno nel provvedimento approvato la settimana scorsa dalla Knesset, ma nell'”Export Administration Act”, una legge americana del 1979, quando il presidente degli USA era il pacifista Jimmy Carter e vigeva in America il primo emendamento a difesa della libertà di espressione. La legge è ancora vigente e per quel che ne so non è mai stata portata davanti alla Corte Suprema, perché la sua costituzionalità è data per scontata. Il provvedimento israeliano è molto più mite, riguarda solamente le amministrazioni pubbliche israeliane o “sotto amministrazione israeliana” e permette solamente, in caso di boicottaggio, di aprire una causa contro gli organizzatori per una modica cifra (10.000 euro circa di massimo) per il semplice appello al boicottaggio, senza dover dimostrare i danni specifici, che sono sempre difficili da accertare in questi casi perché il legame causale fra il boicottaggio e le perdite per esempio di turismo o di affari non è facile da stabilire. Inoltre stabilisce che chi boicotta Israele o un suo territorio non può ricevere dallo Stato israeliano finanziamenti o contratti.
Ma si tratta di un provvedimento liberticida, che reprime la libertà di espressione? Chiaramente no. Vi è infatti una differenza fra esprimere opinioni e incitare ad azioni che danneggiano qualcuno. Il mondo ebraico l’ha sostenuto con forza riguardo a negazionismo e razzismo (altra cosa è dire che esistono le razze, che gli esseri umani sono disuguali e – poniamo – che gli abitanti dell’isola d’Elba sono la miglior razza umana: una sciocchezza enorme, che non può essere punita. Altra cosa è invitare a eliminare – poniamo – gli abitanti dell’isola del Giglio, che sono inferiori agli elbesi: questo è un incitamento che deve essere poibito). L’invito al boicottaggio rientra certamente in quest’ultima categoria, è un’azione e non un opinione. Svolto contro uno stato democratico o un altro corpo elettivo per obbligarlo a cambiare le sue politiche, è inoltre profondamente antidemocratico, perché cerca di rovesciare le scelte legittimate dalle elezioni con la forza dei media. Gli ebrei inoltre ricordano come una ferita ancora aperta che i primi atti pubblici della Shoà furono dei boicottaggi selettivi: esclusione da scuole e università, espulsione da associazione, accademie e sodalizi, “Kauft nicht bai Juden“. Anche in Italia il mondo ebraico si è mobilitato, qualche mese fa, quando è emerso un boicottaggio antisraeliano dalle Coop, ha preteso e ottenuto l’attestazione che esso non era stato messo in atto. Ma come cercare di impedire il boicottaggio esterno delle istituzioni israeliane (le università, marche note come “Ahava” ecc.), se la stessa forma di “lotta” era legale in Israele? Come permettere che una parte della società israeliana cerchi di forzare le scelte democraticamente assunte dalla Knesset e dal governo (e condivise dalla maggioranza dell’elettorato, a quanto dicono i sondaggi) e cercare di provocare una “guerra civile” contro i “coloni”, come ha scritto per esempio il regista Judd Ne’eman (Ma’ariv, July 7, 2011)? Il senso della legge sta qui e non è liberticida né “maccartista”, è un’autodifesa moderata e prudente della società democratica israeliana contro le aggressioni dei suoi nemici.
Bisogna chiedersi allora il perché di questo finto e ridicolo scandalo sul “maccartismo”, magari proposto da parte di ebrei che avevano appena suscitato un altro scandalo dichiarando di non sentire le vittime del terrorismo palestinese loro “fratelli” perchè “coloni” – una divisione del popolo ebraico corrispondente alla “guerra civile” di Ne’eman e compagni. Vi è una ragione generale e una particolare. Quella generale è che sempre la guerra asimmetrica comprende azioni mirate a produrre reazioni da parte del suo obiettivo o a mostrarne l’impotenza: così è stato, fatte le debite differenze, per gli attentati delle BR, per la flottiglia, per la contestazione della Tav in Piemonte, per le azioni della sinistra israeliana contro la barriera di protezione, per i tentativi recenti di violare il confine israeliano con Libano e Siria. La reazione verrà dipinta come “repressione” “sproporzionata”, “paranoica”, “violenta”. E potrà partire un’altra campagna.
La ragione specifica è che Israele in questo momento è sottoposto a un’azione di delegittimazione su tutti i fronti, sostenuta all’esterno da arabi e ultrasinistri e all’interno di Israele da Ong i cui finanziamenti vengono dall’estero e a volte hanno inquietanti vicinanze con fonti islamiche (e c’è contestazione sulla volontà della Knesset di indagare su questi legami) e dall’estrema sinistra che cerca in questa maniera di rimediare alla sua totale debolezza elettorale. I nemici di Israele di tutte le salse, dentro e fuori il mondo ebraico, si prestano a questo gioco. Meraviglia che queste posizioni trovino spazio sui media comunitari ebraici.
Ugo Volli