Francesco Margiotta Broglio: “Valori laici, patrimonio di tutti”
La ferita ha lasciato un segno appena percepibile, sul muro giallo del palazzetto al numero 37 di piazza delle Cinque Scole. Splende il sole sulla sinagoga, volteggiano sereni i gabbiani del Lungotevere, quasi nulla ricorda più quella bomba a mano che nell’autunno del 1943 lanciarono contro il muro per spaventare la gente braccata. Chi va in giro a sporcare i muri di Roma oggi forse se ne dimentica. Ma quei muri portano ben altre ferite. E per lui quel segno è rimasto indelebile. Vicino di casa, a sei anni, di ebrei che non avrebbe più potuto incontrare, oggi Francesco Margiotta Broglio è conosciuto come uno dei massimi esperti dei complessi rapporti fra lo Stato e le religioni. Ma la sua vita privata, da quando dormiva nel lettino e quella bomba sfiorò la sua finestra, frantumò e fece crollare un infisso a pochi centimetri dalla sua testa, ha continuato a essere una continua occasione d’incontro con il mondo ebraico. Al liceo Virgilio di via Giulia, dove insegnò anche sua madre (e molti ragazzi del quartiere ricordano la sua complicità nel risparmiarli dai compiti scritti al sabato). Nel lavoro accademico come esperto di legge e di religioni, nella stesura delle Intese fra Stato e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che avrebbero segnato la storia della più antica realtà ebraica della Diaspora. E anche nella scelta di dove abitare, da vicino di casa degli ebrei di Roma allora a vicino di casa della sinagoga di Firenze oggi. Fra i tanti nodi irrisolti, fra i tanti temi ricorrenti di una società come la nostra, che si vorrebbe avanzata ma è costretta continuamente a fare i conti con un passato difficile, i valori laici tornano continuamente alla ribalta per gli ebrei italiani. Valori che per la cultura ebraica ormai da millenni non segnano il confine fra i privilegi di una casta sacerdotale e i diritti della gente comune, ma piuttosto costituiscono una componente fondamentale della riflessione di come essere pienamente cittadini e di come essere ebrei.
Si continua, professore, a studiare un maestro e un Giusto fra le nazioni come Arturo Carlo Jemolo e lei tiene accanto l’ultimo volume dell’epistolario con l’amico Mario Falco e il recentissimo Arturo Carlo Jemolo. Riforma religiosa e laicità dello Stato di Carlo Fantappiè (Morcelliana). Ma la laicità che cos’è davvero?
La laicità è la neutralità di fronte al fenomeno religioso.
Che cosa significa essere laici in Italia?
Me lo sono chiesto spesso anch’io, gli italiani sono uno strano popolo di miscredenti anarchici. E dobbiamo anche ricordare che nella tradizione laica delle élite liberali della seconda metà dell’Ottocento era presente una importante componente cattolica liberale. Una vera tradizione laica nel nostro paese è sempre rimasta il patrimonio di una minoranza. E una lunga, complicata storia in cui contano solo tre protagonisti. Quali? Le istituzioni, la Chiesa e gli ebrei.
Dalla presa di Porta Pia al Concordato del 1929 la Chiesa esce dal quadro politico…
E gli ebrei anche a Roma cominciano a entrarvi. Ma intendiamoci, i valori laici di cui parliamo oggi sono un’acquisizione piuttosto recente. L’assolutismo settecentesco mostrava una pulsione di controllo sulle religioni, lo stesso Piemonte delle Guarentigie seguì questa strada. Il culmine si raggiunse proprio con il Concordato del 1929.
Oggi questi fatti sono molto lontani, eppure, nonostante la Costituzione, il rinnovo del Concordato, le Intese e le mille riflessioni, i tanti aggiustamenti che hanno fatto seguito, i nodi restano.
Credo sia ancora difficile comprendere com’è importante che il fenomeno religioso viva nella sfera pubblica, senza che questo comporti necessariamente il fatto di entrare nella cosa pubblica. Questo è il grande equivoco della laicità in Italia.
Al di là delle Intese, di cui lei è stato uno dei grandi protagonisti, quali altri grandi momenti sono da ricordare per un’analisi della concezione dei valori laici in Italia?
I referendum su divorzio e aborto, naturalmente. Ma soprattutto la sentenza della Corte costituzionale del 1989 sull’ora di religione cattolica nella scuola pubblica. Da queste esperienze abbiamo potuto trarre molti spunti. Che il concetto di laicità può essere alquanto variabile e da noi una “laicité de combat” alla francese trova poco spazio. Che uno schieramento politico esclusivamente fondato sul concetto di laicismo (quello che si profilò ai tempi del referendum) non costituisce un elemento stabile del quadro italiano. E anche che la realtà italiana non è forse pienamente matura né rigorosa secondo i canoni delle società occidentali.
Pesa la Storia?
Non dimentichiamoci che conviviamo con valori e vicende millenarie. Quelle della minoranza ebraica, che è portatrice di una visione del tutto originale. E quelle delle istituzioni cattoliche. Se i papi se ne fossero rimasti ad Avignone, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma non è andata così. Per comprendere l’influenza del papato dobbiamo pensare che la Conferenza episcopale italiana esiste dal 1956 e che i vescovi si riunirono fino ad allora sulle suddivisioni dei confini preunitari.
Immaturità?
Direi piuttosto anomalia. Così come anomala è la natura degli italiani, cattolici come ebrei, che molto raramente hanno dato segni di integralismo. Noi conosciamo la cultura della mediazione. Se si vuole misurare quante riflessioni diverse possano passare attraverso questo discorso, consiglio molto di dare un’occhiata a un piccolo libro di Jean Bauberot (Le tante laicità nel mondo, Luiss University Press) che aiuta a comprendere come non sia possibile farsi un archetipo di laicità. Ognuno deve costruirsi la sua.
Chi ha titolo per parlare?
Ognuno, per carità, può dire la sua. Ma oggi il dibattito mi sembra piuttosto monopolizzato dalle affascinanti e complesse elaborazioni di filosofi che non hanno mai aperto il Codice civile.
Per il giurista le religioni rappresentano solo un irrazionale incomodo?
Al contrario, al di là e in aggiunta ai principi sacri a chi crede, le religioni svolgono un prezioso ruolo di ammortizzatore sociale. Lo hanno sempre svolto e lo possono fare ancora di più oggi, in una stagione in cui lo stato è portato all’idea di privatizzare anche i servizi essenziali, come la distribuzione dell’acqua potabile. Al di là del dibattito ideologico sarebbe necessario guardare un poco al concreto.
Per esempio al problema della costruzione di nuove moschee in Italia. Lei ha partecipato a fianco della Comunità ebraica di Firenze alla manifestazione per facilitare la costruzione di un nuovo luogo di culto in Toscana.
Certo, l’ho fatto con convinzione. Però mi sono anche domandato: ma quanti saranno i musulmani in Italia che frequentano una moschea? Proprio agli amici ebrei di Firenze, consapevole che voi venerate le idee, non gli edifici, ho proposto per scherzo di cedere all’Arabia Saudita la sinagoga fiorentina e di investire il capitale derivante per trovare una sistemazione forse meno scenografica ma più razionale ed economica.
Reazioni?
Ci abbiamo riso sopra, consapevoli che questi scherzi sono possibili solo in Italia. Noi apparteniamo a un mondo che ha fatto della trasversalità di genti e idee il suo punto di forza. Dopo la guerra, quando nel quartiere ebraico si tornava faticosamente alla vita, mamma mi mandava al negozio di alimentari all’angolo con via della Reginella. Sul banco il proprietario teneva una quantità di bussolotti dove lasciare una monetina. Doveva essere un uomo di larghe vedute, perché fra i tanti un salvadanaio aveva ai suoi piedi il pupazzetto di un bimbo dalla pelle scura. Una molla gli faceva inchinare la testa quando cadeva la moneta. Ho imparato così che si poteva restare se stessi e dare anche una mano ai frati delle missioni.
Valori laici, pluralismo religioso, rispetto del bene comune e dello spazio pubblico. Gli ebrei italiani hanno maturato in due millenni un’esperienza preziosa. Che cosa possono fare per metterla a disposizione di tutti?
Devono sviluppare le potenzialità degli strumenti esistenti. A cominciare dall’Otto per mille, che serve proprio per tutelare quei valori, quei beni e quelle culture senza le quali l’Italia perderebbe la propria anima e la propria identità. E devono lavorare sull’informazione a livello professionale. Uscire allo scoperto, parlare alla gente. Prendete questo giornale. Fatelo crescere perché diventi un settimanale. Continuate a portarlo, come avete fatto alla Fiera del Libro di Torino, a quell’Italia che vuole conoscervi.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, luglio 2011
Le Comunità e lo Stato. Vent’anni dopo
“Mi sembra che il bilancio di questi venti anni di Intesa fra Stato e Unione delle Comunità Ebraiche sia nel suo insieme molto positivo. Se guardiamo ai fatti, fu la sentenza 239 del 1984 della Corte costituzionale a sollecitare le Comunità ebraiche a rinunciare all’impostazione un po’ bonapartista della molto importante legge Falco del ’30, che bene o male – anzi malissimo – anche dopo le leggi razziste del 1938, regolò la vita degli ebrei italiani e le loro istituzioni per quasi sessant’anni, battendo la normativa concordataria messa subito in crisi nel ‘48 dai nuovi principi della Costituzione, e nel ’70 -’74 dalla legge sul divorzio, dalla giurisprudenza costituzionale e dalla conferma popolare della medesima. Consentitemi però di ricordare che non tutto l’ebraismo italiano accolse positivamente la legge Falco. A parte le critiche di Piero Sraffa nelle lettere alla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, è nota ma va richiamata la reazione dell’ex guardasigilli Lodovico Mortara espressa allo stesso Falco. La ricordo perché è importante per capire la storia dell’ebraismo italiano e la cito da un libro importante uscito l’anno scorso, quello di Stefania Dazzetti, intitolato L’autonomia delle comunità ebraiche italiane nel Novecento. Che cosa scrive Mortara all’amico Falco? “Quanto al regolamento non posso disapprovarlo in tutto, perché compilato su legge cogente ma le dico in confidenza, caro amico, che ho imparato moltissimo da un versetto del Pentateuco che scriverei qui in ebraico se non avessi timore di commettere sbagli di ortografia ma ricordo bene che si traduce così: ‘In qualsiasi luogo tu rammenterai il mio Nome verrò a te e ti benedirò indi la mia fermissima incrollabile convinzione che avete torto tutti quanti che pretendete una forma di mezza abiura da chi non voglia contribuire con denaro alle spese della comunità e lo carpite per di più con il rifiuto della sepoltura presso i suoi cari. Questa è intolleranza bella e buona e Dio non l’ha insegnata né autorizzata”. Sulla stessa linea si mise Jemolo, che ricordava sempre la posizione di Mortara e in un suo piccolo progetto di articoli per la Costituzione aveva espressamente inserito addirittura il divieto “di escludere dai sepolcreti famigliari i colpiti di sanzione religiosa” e che, scrivendo a Falco il 23 agosto del ’31, così commentava una frase contenuta nelle conferenze tenute nel marzo-aprile nelle principali comunità ebraiche: “Mi consentirai di dirti che io trovo nella conferenza solo alcune parole di troppo: quelIa scritta a pag. 9 “ripudiando la concezione astratta della ideologia separatistica … ecc.”, sinceramente per giustificare il legislatore di avere, in un completo abbandono di questa ideologia, dato norme sulla confessione israelitica, non mi sembrava necessario prendere posizione contro questa ideologia: che è poi stata la grande madre da cui sono nate molte ottime cose, compresa l’emancipazione degli ebrei; gran madre, che i pochi che credono in un progresso e i molti che pensano che nei corsi e ricorsi vi sia posto per ore di luce, non si rassegnano affatto a pensare come una idea morta, che più non abbia ad uscire dal sepolcro”. L’Unità nazionale d’Italia venne raggiunta attraverso una rivoluzione liberale che superando i particolarismi – oggi in paradossale rinascita – e opponendosi alle prerogative del papato, sconfiggeva l’antico regime segnato dal sodalizio fra trono e altare. Per gli ebrei italiani la formazione della coscienza nazionale fu parallela a quella dei principali nuclei indipendentisti regionali (piemontesi, napoletani…); parallela, non successiva, per la sua simultaneità, lo notava Arnaldo Momigliano recensendo Gli ebrei a Venezia di Roth, che ci spiega come mai il nazionalismo italiano non ebbe sfumature e vibrazioni antisemite e come mai la prima integrazione degli “ebrei nazionali” venne vista con favore dall’ebraismo italiano che non percepì immediatamente la carica eversiva di un nazionalismo divenuto l’anima dell’imperialismo post-unitario. Il 2011 è una grande occasione per ricordare il ruolo dell’ebraismo italiano nella formazione della Stato unitario e nella sua successiva vicenda, una sfida che le Comunità, l’Unione e le istituzioni che ne fanno la storia non possono a mio avviso non accettare.
Francesco Margiotta Broglio
Dall’intervento tenuto in occasione del ventennale delle Intese.
(Rassegna Mensile di Israel)