Maimonide e i marrani

Sembra che alcuni considerino la «questione dei marrani» l’oggetto di un interesse antiquario, dominio esclusivo degli storici, gli unici in grado di poter dire qualcosa su un’epoca passata, chiusa e conclusa dell’ebraismo. Perciò chi la riapre, si farebbe portavoce di un’illusione remota, seguirebbe un incomprensibile vezzo inattuale.
Ma le cose stanno diversamente. Lo mostra il «ritorno» dei ventimila chuetas di Mallorca. Per troppo tempo ha prevalso una visione restrittiva e superficiale dell’arcipelago dei marrani che, dai conversos giudaizzanti, fedeli in segreto all’ebraismo, ai nuovi cristiani, zelanti fino al dissenso, dagli eretici ai deisti, dagli ateisti ai secolarizzati, hanno mostrato da sempre una frammentazione difficilmente riconducibile a un concetto monolitico.
Se fino a poco tempo fa i marrani costituivano un problema per la chiesa, perché testimoniavano la violenza perpetrata con i battesimi forzati, non era però ancora chiaro fino a che punto rappresentassero un problema per l’ebraismo. Benché furono molte le discussioni, e si cercò di distinguere tra differenti contesti, generazioni, situazioni, per la maggior parte dei rabbini i marrani erano, se non completi goyim, almeno idolatri. Il battesimo segnò anche nel mondo ebraico una barriera metafisica, l’impossibilità di un ritorno.
Eppure Maimonide nella «Lettera sulla conversione forzata», distinguendo modalità e gradi diversi di conversione, raccomandava agli ebrei convertiti forzatamente di «abbandonare ogni possesso e camminare giorno e notte» fin quando non avrebbero trovato un luogo in cui «ricostituire la loro religione». Suggeriva di osservare in segreto il più alto numero possibile di mitzvòt. Sotto minaccia di morte l’alternativa poteva essere solo quella della emigrazione: esterna, cioè appunto, l’esilio, oppure interna, cioè la conversione.
Maimonide denunciava, non senza veemenza, un rabbino che aveva condannato indiscriminatamente tutti i convertiti. Parlava ovviamente di sé. Intorno al 1160 la sua famiglia, passata temporaneamente all’Islam, attraversò lo stretto di Gibilterra per lasciare Cordova e recarsi, attraverso varie peregrinazioni, a Fez. Da lì, nel 1165 varcò i confini dell’impero degli Almohadi, per tornare all’ebraismo.
Maimonide si interrogò sulla possibilità di interpretare la conversione come una emigrazione interna e temporanea che non vietasse un ritorno alla fede ebraica. Anticipò la questione dei marrani. Chissà che non si debba riprendere oggi da qui la riflessione.

Donatella Di Cesare, filosofa