Viaggi, amori, salotti. La vita di Rahel Varnhagen

Non si era sposata presto, come le altre, perché non era attraente, né si illudeva di esserlo. Quel suo aspetto “orientale”, l’incarnato olivastro, il nero degli occhi e dei capelli, rappresentava l’esotico a cui la tollerante Berlino di fine Settecento si riprometteva di dare cittadinanza. Dove Moses Mendelssohn, l’ebreo d’eccezione, aveva mostrato come bastasse farsi valere, essere colti, intelligenti, originali, per essere accettati e acquisire privilegi. D’altronde il padre di Rahel, il banchiere Markus Levin, era riuscito a mettere insieme un ingente patrimonio e a intrecciare una fitta rete di legami, perfino con l’aristocrazia. Come gli altri ricchi ebrei berlinesi, una ristrettissima minoranza, i Levin si erano emancipati da quelle che consideravano antiquate consuetudini e vecchie forme di vita ebraica che la ragione universale, il nuovo credo europeo, sembrava rendere superflue. Avevano lasciato le superstizioni ai Betteljuden, agli ebrei che mendicavano per le strade di Berlino, o ai loro parenti rimasti nel mondo arretrato della Slesia orientale. Per Markus Levin il sigillo del successo sarebbe stato impresso dal matrimonio della sua primogenita con un nobile tedesco. Ma Rahel, testarda e appassionata, aveva preso tutto alla lettera. La dote su cui voleva puntare era quella sua straordinaria capacità di capire, e di aiutare gli altri a capirsi, che avrebbe potuto dispiegare nelle lettere destinate a interlocutori prescelti oppure esibire nel dialogo aperto, disinibito, senza pregiudizi, quasi spregiudicato. Aveva diciannove anni quando, nel 1790, inaugurò il suo primo “salotto” nella mansarda della casa paterna. I nomi della Berlino colta non tardarono a bussare alla sua porta. Per lei non era una sorpresa: già da tempo Alexander von Humboldt le scriveva lettere in caratteri ebraici. Era per dirle quanto prediligesse la “compagnia di donne ebree”, senza renderlo noto a tutti. Ma che cos’era un “salotto”? Nulla di mondano. I salotti berlinesi godevano di una extraterritorialità. Le regole della rappresentanza erano sospese, i ruoli sociali tralasciati, le differenze di classe annullate. In quei nuovi spazi di libertà, sottratti alla storia, si provavano a inventare inedite forme di vita, ad anticipare il futuro, a fiutare le uguaglianze promesse. Erano utopie che interrompevano la noia quotidiana. Ci si ritrovava, dal pomeriggio a notte tarda, con il gusto per l’individualità colta, con la disposizione a scoprire e a farsi scoprire, con il desiderio di discutere del mondo e del suo inaccettabile ordine. Non stupisce che ad animare quei luoghi avventurosi fossero affascinanti e tormentate figure di ebree. Si presentavano, all’esordio della modernità, sommando in sé tante differenze. Erano pronte a liberarsene, spinte da un’eccentrica volontà di emancipazione. Ma per essere ammesse, per entrare nella storia, si chiedeva loro di assumere la storia di chi giurava di accettarle. Rahel, la “piccola Levin”, se non poteva contare su una bellezza erotica, era maestra nell’arte del dialogo. Da sola si era messa a studiare: letteratura, arte, filosofia, musica. Aveva appreso una lingua dopo l’altra. Quale uomo avrebbe resistito a quella fine accoglienza fatta di parole, all’audacia delle sue “verità da mansarda”? Non capiva che le sue molte virtù incutevano timore: gli uomini apprezzavano la costruita fragilità che si lasciava spezzare dal fascino virile per trasformarsi in quella robusta domesticità che li avrebbe governati. A partire dal 1795 viaggiò attraverso l’Europa intellettuale del tempo. Si legò dapprima a un nobile tedesco, poi a uno spagnolo. Il matrimonio non sembrava adatto a lei; di quel contratto poteva fare a meno. Purché non venisse meno la passione ardente e la complicità intellettuale. Ma il naufragio non smetteva di minacciarla. Indifesa e ribelle, pronta per recitare un ruolo che non era stato ancora scritto, lasciava che, dopo ogni sconfitta, la vita la colpisse, “come il cattivo tempo chi non ha ombrello”. E assecondando il desiderio di assimilazione, cambiò più volte nome. Sostituì Levin con Robert; poi, quando decise di farsi battezzare, nel 1814, diventò Friederike Antonie Robert e, dopo il matrimonio, all’età di 43 anni, prese il nome del marito Varnhagen. Trovò presso di lui un asilo temporaneo, mentre il mondo intorno a lei tornava a mostrare l’odio covato verso Rahel, l’ebrea. Si sentì sempre una Schlemihl, perseguitata dalla cattiva sorte, dal peso di un’esistenza scandita dalla chimera di un’autenticità impossibile, continuamente in bilico – come l’ha descritta Hannah Arendt – tra il ripiegamento della parvenue e la rivolta consapevole della paria, simbolo al femminile di un’ebraicità che resisteva oltre l’assimilazione per testimoniare, se non l’altro, il fallimento di quel sogno. Sul suo letto di morte confessò: “Per tanto tempo, nella mia vita, essere nata ebrea ha costituito l’onta più grande, il dolore più atroce, la condanna più amara; a questo, ora, non voglio a nessun costo rinunciare”.

Donatella Di Cesare, Pagine Ebraiche, luglio 2011