Davar Acher – Antisemitismo e pregiudizio
Nei mesi scorsi è uscito da Bompiani un libro di Roberto Finzi (Il pregiudizio, pp. € ), in cui si illustrano le prese di posizione antiebraiche da parte di diversi protagonisti della vita politica e culturale cui non verrebbe da attribuirli: liberali come Croce e Merzagora, intellettuali ebrei come Lombroso, padri del pensiero progressista come Marx, grandi scrittori umanisti come Goethe. Le frasi scritte da questi personaggi appaiono oggi incredibili. Per esempio Marx parla del commercio e del profitto come il “vero dio” dell'”ebreo” e conclude che “L’emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è l’emancipazione dell’umanità dal giudaismo”. Come dire, la condizione della libertà per gli ebrei è la loro distruzione come entità collettiva.
Goethe esclude gli ebrei dalla città ideale del Wilhelm Meister “perché non riconoscono le origini storiche della nostra civiltà, che non è la storia loro, dominata da una singolare idea di dominazione”. Lombroso ipotizza anche lui la “fusione” dell’ebraismo nella società circostante come soluzione di tutti i problemi, e crede di difendere “la razza ebraica” spiegando che “essi sono già un popolo molto più ario che semita”, cioè non sono davvero ebrei; Croce, che pure si era opposto alle leggi razziali, dopo la Shoah invita gli ebrei a “cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire”, Merzagora scrive una specie di decalogo a uso dei reduci della Shoah il cui senso generale è che “si controllino”, “non chiedano la luna” – osservazioni rese ancora più gravi dal fatto che il futuro presidente del Senato sedeva in qual momento su un posto da cui il fascismo aveva espulso il suo predecessore ebreo. Tutti questi autori pensano che la differenza ebraica – l’esistenza degli ebrei come ebrei – sia di per sé male e la soluzione del “problema ebraico” è la cancellazione dell’ebraismo, non dell’antisemitismo. Era stata del resto anche la posizione della Rivoluzione francese: «Si accordi tutto agli ebrei come individui, ma non come nazione»: lo aveva detto all’Assemblea nazionale nel 1789 il conte Clermont-Tonnerre.
Sono cose ben note a chi si occupa di antisemitismo. La ragione per riparlarne è che Finzi suggerisce di distinguere queste posizioni dall’antisemitismo vero e proprio, quello legato al nazismo e in misura più o meno grande corresponsabile della Shoah, trattandole come un’altra malattia più leggera, appunto “il pregiudizio”. Si può discutere di questa denominazione, che appare assai generica, e soprattutto della quasi-assoluzione che ne consegue (particolarmente ribadita nel caso di Marx da una prefazione molto discutibile di Claudio Magris, che cade perfino nella ripresa del concetto crociano sopra riportato: “l’enfasi sulla diversità ebraica contiene di per sé, anche quando quest’ultima viene esaltata, un possibile germe di antisemitismo”). Non lo farò qui.
Più interessante mi pare isolare il motivo principale della distinzione fra antisemitismo e “pregiudizio”. I portatori di questa versione attenuata della malattia non solo non collaborarono direttamente alla violenza antisemita e magari la contrastarono, ma scrissero le espressioni che oggi ci ripugnano facendosi dominare – sostengono Finzi e Magris – da “stereotipi antiebraici” “annidati nel profondo”, che “né la cultura né l’adesione a quanto oggi si è soliti chiamare modernità avevano sradicati”. Insomma, influenze “ambientali”, “pregiudizi” “diffusi”. Mi sembra chiaro che essere contro gli ebrei per ragioni ambientali di per sé non può essere una scusante (se no si potrebbe dire che anche Eichmann ce l’aveva con gli ebrei per questa ragione). Non entrerò qui nel merito alla discussione sulle responsabilità (a me per esempio sembra imperdonabile che Marx in una lettera scriva di un avversario politico ebreo che “egli, come dimostrano anche la conformazione della sua testa e della sua chioma, discende dai negri che si unirono all’esodo di Mosè dall’Egitto).
Ma forse val la pena di considerare il suggerimento di distinguere fra l’antisemitismo militante e un “pregiudizio” antiebraico diffuso e per nulla censurato, che fu adottato senza problemi da tutti in Europa, anche i grandi intellettuali (per esempio Voltaire) fino a ben dentro il Novecento. La ragione è che esso, come mostra Finzi, venne in sostanza condiviso anche dagli ebrei assimilati. Questo “razzismo debole” fu dirottato dagli ebrei che si illudevano di essere entrati nella “civiltà europea” sul passato e sugli ebrei loro contemporanei non assimilati (le pagine di Joseph Roth sugli ebrei orientali e quelle di Kafka sugli attori yiddish sono fra le significative eccezioni), senza che questo peraltro dissipasse l’odio dei veri antisemiti. Ma esso impose ai bravi borghesi usciti dal ghetto o dallo stadtl un paio di generazioni prima, che lo usavano per distogliere da sé l’antisemitismo, una complicata azione di negazione e distacco dalla loro identità, dalle loro tradizioni, dalla loro cultura, l’attitudine a giudicare male il proprio popolo e a sopravvalutare la cultura dell’Europa cristiana, il pensiero che solo l’universalismo e magari il socialismo poteva giustificare la loro pregiudizievole origine. Viene certamente da qui, dall’assunzione soggettiva del “pregiudizio”, l'”odio di sé” di molti (non solo di Weininger e Kraus e Simone Weil, ma anche di coloro che nascosero le proprie origini ebraiche come Moravia o coloro che si convertirono non per consapevole interesse ma per convinzione, come pensò di fare perfino Franz Rosenzweig e fecero, non importa se al cristianesimo o alla religione comunista, tanti altri). L'”odio di sé” non è una categoria psicologica, come si sostiene nel libro, ma sociologica e collettiva.
E di qui viene anche probabilmente la radice di quell’essere “diversamente sionisti” o antisionisti tout court, che caratterizza oggi i Pappé, i Chomsky, le Hass e molti altri fino a J Street e ai loro emuli europei: l’idea di dover dimostrare la propria rispettabilità e l’assunzione nel mondo circostante giudicando più severamente di altri il popolo da cui si proviene (e magari non si è più davvero parte); di privilegiare i diritti altrui rispetto a quelli di Israele per farsi personalmente accettare come bravi intellettuali e persone perbene nonostante le “origini” ebraiche, di rifiutare il “tribalismo” a favore dell’universalismo: una caricatura del pensiero ebraico sulla giustizia in cui ci imbattiamo oggi continuamente. Bisogna sapere che il “pregiudizio”, se non proprio l’antisemitismo, non è morto dopo la Shoah nella mente e nel cuore dei popoli europei (e naturalmente anche degli islamici); si è solo nascosto e spesso travestito da antisionismo e critica di Israele. E non è morto il “pregiudizio” di alcuni degli stessi ebrei per se stessi, che oggi è diventato nei diversamente sionisti “correttezza politica”, “amore della pace” e “giusta critica delle azioni inaccettabili del governo israeliano”, se non peggio.
Ugo Volli