La missione dell’Onu
Quando, il 14 maggio del 1948, i “founding Fathers” di Israele ebbero l’ardire di pronunciare la Dichiarazione di Indipendenza – sfidando in modo clamoroso la legge del più forte, che avrebbe voluto il minuscolo, neonato staterello rapidamente schiacciato dalle soverchianti forze nemiche -, la loro non fu solo la rivendicazione di uno storico, millenario diritto di sovranità nazionale (di cui, secondo la teologia medioevale, il popolo ‘deicida’ avrebbe dovuto essere privato in eterno, come punizione per il suo irreparabile crimine – come disse Dante, per “la vendetta de la vendetta del peccato antico” -), né la mera riappropriazione di quel semplice diritto all’esistenza che il nazismo aveva voluto negare (a fatti, e non a parole) agli ebrei, nell’indifferenza del mondo civile; ma fu anche una riaffermazione, nonostante tutto, dei superiori princìpi del diritto e della legalità internazionale, di cui i mostri del XX secolo avevano fatto strame. Diritto degli individui, diritto dei popoli, diritto degli Stati: pace, cooperazione internazionale, rifiuto di ogni arbitrio e di qualsiasi prevaricazione, libertà per tutti e sicurezza per ciascuno. Questi i valori fondanti del moderno Stato di Israele, che, sulle ceneri della tirannia nazifascista, sperava che le forze uscite vincitrici dal titanico conflitto avrebbero voluto e saputo costruire una nuova famiglia universale di popoli liberi e uguali, la cui coesistenza sarebbe stata regolata per sempre, appunto, dal diritto, e non dalla forza.
La nascita dell’ONU, nel 1945, aveva suscitato l’effettiva speranza di un nuovo ordine di legalità mondiale, che in tale Assemblea avrebbe visto il riconoscimento e la tutela di tutti i diritti di tutti i popoli: una speranza talmente radicata, nei padri di Israele, che le Nazioni Unite sono menzionate, nella Dichiarazione d’Indipendenza -un testo di soli 18 commi -, ben cinque volte, a testimoniare come gli ideali affermati nella Carta di San Francisco – volti alla costruzione di un mondo di pace, giustizia e fratellanza – sembrassero, all’epoca, in assoluta sintonia con l’ideale sionista. Non c’è bisogno di ricordare quanto, negli anni a seguire, la speranza di Israele sarebbe andata delusa, e in che misura le Nazioni Unite avrebbero tradito la loro propria originaria, asserita vocazione. Israele sarebbe rimasta, nonostante tutto, la patria del diritto, combattendo tutte le sue guerre, come è stato detto, “con una mano legata dietro la schiena”: ma molto, troppo spesso, nella sua battaglia per il diritto e per la legalità, si sarebbe trovata sola, con buona parte del mondo schierata dall’altra parte della barricata.
È soprattutto a questa delusione, a questo tradimento che ci sembra dedicato il libro di Jonathan Curci e Raffaele Petroni, con preambolo di Scialom Bahbout e prefazione di Antonio Donno, recentemente pubblicato per le Edizioni Messaggi: L’esistenza dello Stato d’Israele, il Medio Oriente e la Comunità internazionale. Considerazioni sul conflitto. Un volume che offre una precisa e dettagliata ricostruzione della contrastata storia dei rapporti tra Israele e i suoi vicini e avversari, ripercorsa in tutti i principali aspetti politici e militari (dall’autodeterminazione all’autodifesa, dai territori contesi al negazionismo, dal pacifismo aggressivo all’uso proporzionato della forza, dai negoziati di pace alle risoluzioni ONU di condanna di Israele, fino ai più recenti eventi del Rapporto Goldstone e della Freedom Flotilla), considerati soprattutto dal punto di vista della diplomazia e del diritto internazionale. Un libro che testimonia, purtroppo, la grande solitudine di Israele nello scenario internazionale, l’ennesimo rifiuto riservato al popolo ebraico dal “resto del mondo”; eppure, un libro che offre anche, nonostante tutto, un profetico, luminoso messaggio di speranza, nelle parole finali del preambolo di Bahbout: “Gerusalemme… rappresenta un punto comune di riferimento per gran parte dell’umanità: non sarebbe questa la sede più naturale e idonea per un ente come l’ONU che ha il compito di operare per portare la pace nel mondo?”.
Francesco Lucrezi, storico