Davar Acher – Il nostro Tishà be Av

Dopodomani è Tishà be Av, il digiuno che commemora la doppia distruzione del Tempio, a opera dei babilonesi e dei romani. Il significato religioso della ricorrenza è ovvio; ma è pure chiaro che questa data ha un senso profondo anche nella storia politica del popolo ebraico, perché in entrambi i casi significa la perdita di ogni barlume di indipendenza e di autogoverno. Nel nostro calendario accade spesso che i contenuti religiosi e quelli politici si intreccino. Hanno questo carattere Purim, Hannukkah, Pesach, tutti i digiuni salvo Kippur, perfino Sukkot (se si fa caso al riassunto storico che era richiesto di fare a coloro che portavano le offerte vegetali al tempio). Difficile trovare un’altra religione che contenga tanti riferimenti nazionali, o una nazione la cui storia sia così marcata religiosamente. L’unicità di Israele sta anche in questo. Lo stesso carattere si ritrova nelle nostre scritture: il Tanakh è naturalmente la fonte della nostra fede ma anche la storia della costituzione e della difficile esistenza del nostro popolo nei suoi primi mille anni di storia.
La distruzione del Tempio, oltre alla fine del culto, comportò l’uscita del popolo ebraico dalla storia politica: per un secolo e mezzo almeno la prima volta, per dieci volte di più dopo la conquista romana. Non fu un caso se le rivolte politiche successive, come quella di Bar Kochbah, assunsero un aspetto anche religioso e furono appoggiate da grandi maestri come Rabbi Akivà: perché l’autogoverno della Terra di Israele è un prerequisito alla pratica di molte mitzvot, certamente; ma anche perché più in generale nella nostra tradizione non è possibile tagliare nettamente gli aspetti politici, giuridici e sociali da quelli religiosi. Il popolo ebraico dell’esilio è anche religiosamente ferito e misero. L’idea di una religione puramente privata, intesa come pura fede, nasce dall’insediamento cristiano nell’Impero Romano, ma non corrisponde affatto all’ebraismo, che è per sua natura pubblico, non utopico (che letteralmente vuol dire senza luogo) ma pratico, dedito al fare collettivo, e “topistico”, orientato ai luoghi.
In seguito al fallimento di tutti i tentativi di resistenza all’impero romano, che si svilupparono per secoli, in seno all’ebraismo si svilupparono posizioni che giustificavano la perdita della storia come una punizione divina, che non andasse contrastata cercando di recuperare l’indipendenza politica e la terra perduta. Sono posizioni che ancora adesso sono sostenute dalla parte più estrema del mondo haredì, e da una certa quota di utopisti di sinistra. Non è un caso che vi sia stato e vi sia ancora un sionismo religioso, ma che l’impulso decisivo all’impresa della fondazione di Israele venne dagli ambienti laici e progressivi, ma in polemica con i socialisti puri del Bund. Il sionismo è stato socialista con Ben Gurion, conservatore con Begin, religioso con Rav Kook e i suoi allievi. Ha avuto per avversari tutti coloro che rifiutavano l’autonomia politica dell’ebraismo.
Ricordare questa data per noi oggi dunque, oltre al più vasto senso religioso, deve richiamarci all’unità del popolo ebraico (la cui mancanza secondo i maestri fu fra le cause della caduta del Tempio), e pensarla intorno a Israele, la cui sicurezza è minacciata oggi come allora. All’epoca del secondo Tempio si discusse se aveva senso continuare a rispettare il digiuno, nonostante la ricostruzione e si decise di farlo, perché le ragioni di fondo del lutto non erano scomparse. A maggior ragione questo è vero oggi, quando ancora vivono i testimoni della Shoah e i confini dello Stato di Israele sono ancora gravemente minacciati.

Ugo Volli