In memoria di Janusz Korczak
Il 5 agosto del 1942, Janusz Korczak (psedudonimo di Henryk Goldszmit), il grande medico, scrittore e pedagogo, direttore dell’orfanotrofio ebraico di Varsavia, scelse di seguire i 300 bambini, affidati alle sue cure, nella marcia verso la morte a cui furono costretti dai loro aguzzini tedeschi. A tale evento, cinque giorni dopo (quindi, il 10 agosto, di cui oggi cade la ricorrenza), dedicò la seguente poesia Władisław Szlengel (recentemente pubblicata, in traduzione italiana, a cura di Laura Quercioli Mincer, nella silloge: Cosa leggevo ai morti. Poesie e prose del ghetto di Varsavia, editore Sipintegrazioni), cantore della tragedia del ghetto, ove trovò anch’egli la morte, l’8 maggio del 1943, durante l’insurrezione.
Janus Korczak oggi ho veduto,/ nell’ultima marcia, andare coi bambini,/e i bambini avevano vestiti puliti,/ come andassero di domenica al giardino.
Avevano grembiulini puliti, da festa,/ che ora potranno sporcare,/ a file di cinque va all’Orfanotrofio,/ per la città-giungla di gente braccata.
La città aveva il viso atterrito,/ un gigante bizzarro, nudo e stracciato,/ finestre vuote guardavano la strada, /come orbite di sguardo private.
A volte un urlo, come un uccello smarrito,/ suonava a martello per la morte insensata,/ trainati sui risciò giravano apatici/ del nostro ghetto i signori e padroni.
Scalpiccio a volte, calpestio, poi silenzio,/ qualcuno parlava camminando di fretta,/ atterrita e silenziosa, in preghiera/ in via Leszno si innalzava la chiesa.
In fila per cinque marciavano calmi i bambini,/ erano orfani, nessuno accorreva per riportarli a casa,/ nessuno infilava una mancia/ in mano ai colleghi dalle divise blu scuro.
Sulla Umschlagplatz nessuno interveniva,/ nell’orecchio di Szmerling nessuno alitava,/ nessuno gli orologi di famiglia raccoglieva/ come compenso al lèttone ubriaco.
Janus Korczac guidava la marcia/ a testa nuda, gli occhi senza paura,/ a una sua tasca si aggrappava un bambino,/ in braccio portava lui due piccolini.
Giunse un tale di corsa, con un foglio in mano,/ parlava e gridava nervoso:/ – Venga via! Ho una lettera da Brandt! –/ Korczav scuoteva la testa, silenzioso.
Cosa doveva stare ancora a spiegare/ a chi arrivava con la grazia tedesca,/ come far capire a teste senz’anima/ cosa significa lasciar solo un bambino.
Tutti quegli anni… una vita ostinata,/ per dare in mano a un bimbo un piccolo sole./ Potrebbe forse lasciarlo ora, soli, spaventati?/ Andrà con loro… avanti… senza timore.
Al re Matteuccio anche pensava/ cui la sorte risparmiò quel destino,/ re Matteuccio nell’isola selvaggia/ avrebbe scelto lo stesso cammino.
E i bambini andavano ai vagoni/ come partissero in gita a Lag Ba’Omer,/ quel piccolino dal viso spavaldo/ si sentiva come un piccolo Shomer.
E io pensai in quel momento banale/ per l’Europa privo di ogni valore/ che lui per noi, in quel momento,/ scriveva per la storia la pagina migliore.
Che in quella guerra ebraica, vergognosa,/ nell’onta illimitata, nel fragore insensato,/ nella lotta ad ogni costo per la vita,/ nell’abisso del tradimento, del degrado,/ sul fronte, dove la morte non dà onore/ in quella danza notturna, infernale,/ c’era un solo soldato valoroso:/ Janus Korczak, dei bambini il protettore.
Vicini al di là del muro, che dal reticolato/ ci osservate ogni giorno morire per niente,/ ascoltate: Janus Korczak quel giorno ha/ mostrato la Westerplatte della nostra gente.
Francesco Lucrezi, storico