Per capire Israele serve un fumetto
Come raccontare la complessità di Israele? Come farlo con un occhio, diciamo così un po’ antagonista ma assolutamente non preconcetto? Non è per nulla un gioco semplice, anzi è uno dei nodi decisivi attraverso cui passa la comprensione di un paese che è spesso giudicato a priori, senza approfondire o addirittura senza conoscere la sua storia, il suo quotidiano, la sua vita. Sarah parte così per un viaggio verso Israele, con una conoscenza del paese molto parziale, convinta che le responsabilità verso i palestinesi siano tali da rendere quello Stato colpevole per lo meno di grande insensibilità. Sarah è di sinistra, è progressista e vede Israele con gli occhi dei tanti filo-palestinesi che non possono non essere anche anti-israeliani. Sarah è però anche ebrea, un po’ “lontana” magari (ha solo un’amica correligionaria) ma comunque ebrea e quindi, per meglio districarsi in questo ginepraio vuole sapere. Parte per questo viaggio grazie all’opportunità che la Taglit Birthright Israel (un’agenzia finanziata dallo Stato israeliano e da associazioni private) mette a disposizione di tutti i giovani ebrei o di origine ebraica per conoscere la “Terra dei Padri”. La corazza ideologica che si è creata la fa sentire al riparo dell’insidiosa “propaganda sionista” che forse vuole convincerla della giustezza della propria politica. La Sarah che intraprende il viaggio è una ragazza bionda, Sarah Glidden è invece una bruna trentunenne bostoniana ma newyorkese di adozione. Sarah e Sarah, la prima protagonista di un racconto, la seconda è l’autrice dello stesso. Le differenze sono tutte qui. Esce in questi giorni per i tipi di Rizzoli-Lizard, Capire Israele in 60 giorni (e anche meno) nella bella traduzione di Elena Loewenthal, l’opera prima in cui la giovane autrice americana racconta della sua breve ma intensa Aliyah. Per narrarci il suo viaggio, Sarah Glidden ha scelto una strada inusuale ma perfetta, ha scelto un mezzo che, dietro sinonimi più attuali e d’effetto, le ha permesso la sintesi più adeguata, il fumetto. Ma definirlo tale, oggi, risulta un po’ desueto, un po’ limitante. Più precisamente dobbiamo chiamare Capire Israele graphic novel, o meglio ancora graphic journalism, sottolineando come l’aspetto narrativo e quello documentario procedano di pari passo nella vicenda raccontata. Un memoir che si fonde in un carnet de voyage dove la presa diretta di un’esperienza è qui narrata con l’ausilio delle immagini.
Tornata da Israele la Glidden autoproduce un minicomic che incomincia a presentare, condividendo un tavolo con altri cartoonist di Brooklyn, a un festival organizzato dal MoCCA, il museo del fumetto e della cartoon art di New York e benché sia una perfetta sconosciuta viene avvicinata da un editor della DC comics (una delle case editrici più prestigiose degli Stati Uniti, quella che pubblica Superman e Batman per capirci) che si dice interessato al suo lavoro; cose che succedono ancora in quel paese. La DC le propone di pubblicare il suo libro completo con il marchio di una sua affiliata che stampa fumetti d’autore, la Vertigo. Nonostante sia alla sua prima opera Sarah Glidden, ci mostra come si muove a suo agio tra le singole vignette che dipanano la storia. Si legge tra le righe come abbia seguito la scia di chi prima lei ha intrapreso la stessa strada: i suoi compatrioti Art Spiegelman e Joe Sacco per primi, ma anche il francese David B. e la sua apprendista iraniana Marjane Satrapi. Non a caso questi autori si sono occupati di temi difficili (la Shoah, il conflitto arabo-israeliano, l’Iran degli Ayatollah) utilizzando un mezzo semplice, comprensibilissimo. Proprio della semplicità stilistica Sarah Glidden fa una cifra propria. La graphic novel va infatti sviluppata in questo modo, il disegno deve essere veloce, poco estetizzante, deve rincorrere le idee e sottomettersi ad esse, non prevaricare ma raccontare, semplicemente raccontare. Sarah racconta con molta efficacia, come un cameraman che corre con una telecamera sulle spalle e ci regala delle immagini eccezionali ma un po’ tremolanti, così la nostra autrice ha il tratto veloce e tenue di chi deve chiudere senza respiro la narrazione di un evento, di un pensiero. Israele è tutto in queste pagine colorate con un acquarello dalle convincenti pennellate. I paesaggi, le architetture, tutto torna nelle immagini, senza dispendio inutile di parole. I personaggi storici poi, ci passano davanti come eroi shakespeariani, il fantasma di Ben Gurion chiacchiera serenamente con la nostra protagonista tra i giardini del kibbutz Sde Boker, le legioni romane assediano sotto i suoi occhi di giovane americana una Masada in fiamme, le vittime della guerra arabo- israeliana siedono mute ma presenti tra i loro famigliari che raccontano. Pagina dopo pagina la complessità di Israele si fa sempre più tangibile. Partita per trovare risposte e conferme ai suoi pregiudizi, Sarah la viaggiatrice troverà solo nuove domande e un inestricabile quantità di sentimenti contraddittori che ci aiutano a vedere Israele come quello che è, non come quello che si pensa che sia.
Giorgio Albertini, Pagine Ebraiche, agosto 2011