Il significato del passato
Il 7 luglio del 2008, uno “Stolperstein”, pietra di inciampo, è stato incastonato nel selciato di Poschingerstrasse 14, a Berlino, in memoria di Frida Rebhun, deportata dai nazisti il 2 ottobre 1942 e poi uccisa nel campo di Theresienstadt. I suoi due figli gemelli, Heinz e Gughy, avevano lasciato la Germania per la Palestina nel 1936. La madre, andata una volta a trovarli, non aveva potuto unirsi a loro, in quanto impegnata nell’assistenza al marito malato Leopold, deceduto, di morte naturale, nel 1940. Venuto in Italia con la Brigata Ebraica, nelle file nell’esercito britannico, Heinz conobbe a Napoli Luciana Gallichi, che sposò e da cui ebbe una figlia, Myriam, nata a Napoli nel 1946. Tornato in Palestina con moglie e figlia, apprende, col fratello, della tragica morte della madre solo dopo la fine della guerra. Poco dopo, il 17 gennaio 1948, viene ucciso da un cecchino arabo mentre, su un autobus di linea, si recava al lavoro ad Haifa. E, alcuni mesi dopo, cade, combattendo nella guerra d’indipendenza, anche suo fratello gemello. La giovane Luciana, impossibilitata a crescere da sola la piccola Myriam, fa ritorno a Napoli.
Myriam, cresciuta, si innamora e si sposa, felicemente, con un ragazzo gentile, da cui ha due figlie, che vengono battezzate. Ma il tragico passato della sua famiglia la scuote, anno dopo anno, in modo sempre più stringente, inducendola ad un appassionato, febbrile lavoro di riscoperta delle proprie radici, delle figure di quella nonna e di quel padre che le hanno dato la vita, ma la cui esistenze sono state drammaticamente recise, in circostanze diverse ma collegate.
A questo lavoro di ricerca Myriam ha dedicato un toccante, umanissimo libro: Ho inciampato e non mi sono fatta male. Haifa, Napoli, Berlino. Una storia familiare (L’Áncora del Mediterraneo), che rappresenta insieme un accorato omaggio alle nobili vite di sua nonna, di suo padre e di suo zio, ma anche, e soprattutto, una dolorosa interrogazione sulla propria identità, sul senso di un’esistenza trascorsa nel benessere e nel calore degli affetti familiari, eppure segnata, alla sua origine, dal crudele sacrificio di vite crudelmente stroncate anzitempo. Rispetto agli altri libri di memorie di testimoni di seconda generazione, il racconto della Rebhun si fa apprezzare principalmente per il grande coraggio di un’autoanalisi che, se può avere avuto un valore liberatorio, certamente non deve essere stata agevole, né indolore. Si può vivere nell’agio di una tranquilla vita borghese, nonostante un tragico bagaglio di memoria? Fino a che punto la fedeltà alle proprie radici deve diventare un obbligo di prosecuzione lungo una determinata strada? Si ha il diritto di cambiare, di diventare diversi da quello che sono stati i propri genitori, e tutti i propri antenati?
“Le mie figlie – scrive Myriam – non sono ebree. Probabilmente oggi non rifarei la scelta che a cuor leggero ho fatto tanti anni fa. Oggi sono profondamente convinta che l’ebraismo sia un’eredità troppo importante per essere dispersa. Mi consolo, però, accorgendomi in mille occasioni che Giorgia e Sara sono veramente miste. Per quanto facciano parte di una maggioranza, la minoranza l’hanno sempre avuta accanto… Per me ‘misto’ è un valore aggiunto, una chance in più, uno stimolo a porsi domande…Ma… il senso di colpa riaffiora e mi chiedo: se tutti la pensassero così che fine farebbero tradizioni millenarie? Con il mio atteggiamento ho contribuito alla comprensione e al dialogo o a un facile e deleterio sincretismo?”.
La coraggiosa sincerità di Myriam non merita, credo, risposte ‘consolatorie’ e rassicuranti riguardo all’utilità e al senso della sua esistenza. Certamente, ammesso che ella abbia sottratto qualcosa all’ebraismo (a cui pure ha dato tanto), ha certamente dato tantissimo al mondo dei ‘gojim’: anzi, al mondo degli uomini, di tutti. Ma il passato, col suo carico di dolore, continua, e continuerà sempre a bussare ala porta, a chiedere delle risposte. Che, a volte, per arrivare, hanno bisogno di tempo. Perché, come recita il bel titolo di uno dei capitoli del libro, “il passato deve attendere”.
Francesco Lucrezi, storico