Quando gli ebrei se ne vanno
Una delle caratteristiche più utili al leader, e al tempo stesso più rare da possedere, è la capacità di immaginare scenari futuri e strategie a lungo termine. Secondo molti osservatori, infatti, la crisi dell’Occidente è in buona parte dovuta all’inadeguatezza delle sue classi dirigenti e alla loro difficoltà di programmare il lungo periodo.
Nelle ultime settimane la cronaca si é ovviamente concentrata sulla crisi economica e sui rivolgimenti sociali a essa connessi. New York e Londra, capitali della finanza e dell’economia globalizzata, sono state protagoniste dei crolli dei listini e di una grande protesta sociale, quella di Londra, in cui l’elemento di frustrazione è apparso prevalente rispetto all’elaborazione politica, sindacale o culturale.
Ma New York e Londra non rappresentano solo la finanza globalizzata. Secondo gli esperti New York, Londra e Shangai saranno le capitali mondiali del terzo millennio, quegli enormi conglomerati urbani che produrranno (insieme a una trentina di capitali “regionali”) circa l’ottanta per cento della ricchezza mondiale.
E infine, New York e Londra ospitano due tra le più importanti e dinamiche comunità ebraiche. Se queste due città dovessero incarnare direttamente il declino dell’Occidente come accaduto in questi mesi estivi, cosa faranno gli ebrei? Siamo sicuri che la geografia sociale dell’ebraismo mondiale rimarrà inalterata? Non esiste l’eventualità che gli ebrei si muovano verso altre aree del mondo più emergenti, oltre allo Stato d’Israele?
La questione non è interessante solo per i leader di comunità, che programmando il futuro devono tener conto delle variabili esterne (pensiamo all’emigrazione degli ebrei sovietici nella Germania riunificata). Il tema è rilevante per tutto l’Occidente. Come affermò una volta un importante leader druso libanese a proposito del suo martoriato paese: “Quando gli ebrei se ne vanno è un brutto segno”.
Tobia Zevi