Culture in mostra
Visita a un villaggio Masai in Kenya: gli abitanti ci accolgono con danze di benvenuto, ci fanno entrare nelle capanne, ci fanno vedere come si accende il fuoco e ci presentano l”uomo della medicina” che ci illustra le proprietà di alcune piante; alla fine canti di commiato. Qualcuno esce dalla visita insoddisfatto giudicandola “finta”: in effetti i Masai usano moto e telefoni cellulari, molti di loro non vivono davvero nelle capanne tradizionali e le cerimonie di benvenuto e commiato sono state probabilmente inventate a beneficio dei turisti. Ne nasce una discussione su cultura e identità. Personalmente la distinzione tra “vero” e “finto” parlando di culture umane non mi convince, perché sembra presupporre che solo la cultura occidentale sia in grado di evolversi, mentre le altre possono solo mantenersi eternamente uguali a se stesse oppure scomparire. Secondo me, invece, una cultura di minoranza non rinnega necessariamente se stessa ogni volta che assume al proprio interno usi e costumi della maggioranza, anzi, proprio la sua capacità di mutare e accogliere sollecitazioni esterne dimostra che è una cultura viva. L’ebraismo ha dato prova per millenni di questa capacità di adattamento. Le cerimonie inventate ad hoc per i turisti mi hanno fatto venire in mente la Giornata Europea della Cultura Ebraica: nella prima domenica di settembre (che non è una nostra festività tradizionale) accogliamo i visitatori nelle nostre comunità e sinagoghe e organizziamo attività di vario genere esclusivamente a loro beneficio, talvolta con canti e cibi destinati originariamente a tutt’altro contesto. Questo ci rende “finti”? Non mi pare. Anzi, se in futuro uno storico che volesse studiare l’ebraismo italiano del ventunesimo secolo trascurasse la Giornata della Cultura commetterebbe senz’altro un grave errore, così come sbaglierebbe chi volesse studiare i Masai del ventunesimo secolo senza considerare le cerimonie per i turisti: di entrambe le culture verrebbe fuori un’immagine davvero finta. In entrambi i casi si tratta della risposta a esigenze vitali: per i Masai le visite costituiscono un’utile fonte di reddito, a noi servono per demolire il pregiudizio che ci dipinge come una comunità chiusa e poco disposta a mostrarsi all’esterno. Chissà quanti usi e costumi di diverse culture, nel corso della storia, sono stati inizialmente introdotti allo scopo di trasmettere una certa immagine di sé al mondo esterno. Si può anche discutere sull’opportunità di dedicare più o meno tempo e risorse alle attività organizzate a beneficio dei visitatori, magari con il rischio di trascurarne altre “interne”; comunque sia, la scelta di mettersi in mostra non indica necessariamente decadenza o crisi di identità.
Anna Segre, insegnante