Il Mikvé di Ortigia

Di grande successo e di elevato interesse (ennesimo segno di quell’importante fenomeno umano e culturale che è il risveglio ebraico nell’Italia meridionale, incoraggiato con intelligenza, coraggio e lungimiranza dal Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) si sono rivelate le manifestazioni organizzate lo scorso 4 settembre a Siracusa, nella splendida isola di Ortigia, in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Nello stesso edificio che ospita, nei sotterranei, l’antico Mikvé, il bagno rituale adoperato in passato dagli ebrei locali (e recentemente riaperto all’utilizzazione liturgica), un pubblico attento e partecipe si è interrogato (insieme ai rabbini Stefano Di Mauro e Gadi Piperno e a diverse personalità della cultura, di varia competenza e orientamento ideale) sul passato, il presente e il futuro dell’ebraismo in Sicilia, in Italia e nel mondo.
L’ebraismo che risorge o ritorna, in Sicilia e altrove, trova, intorno a sé, un mondo completamente diverso da quello che aveva fatto da alveo e da cornice alla sua precedente presenza. Un mondo, forse, meno freddo e ostile, nel quale i rapporti tra ebrei e gentili appaiono spesso improntati a rispetto, apertura, amicizia. Ma anche un mondo che, accogliendo l’ebraismo nell’abbraccio avvolgente della modernità, rischia di insidiare, di erodere quella identità ebraica che la civiltà del ghetto e dell’esclusione contribuiva, malgrado tutto, a perpetuare.
Qual è il senso profondo, ci si è chiesto a Siracusa, del rapporto tra ebraismo e modernità? In che misura il pensiero moderno è tributario della millenaria sapienza ebraica, che, uscita, con l’ haskalà, l’illuminismo ebraico del XVIII e XIX secolo, dal chiuso delle sinagoghe e delle yeshivòt, l’ha fecondata in mille modi, su tutti i terreni dell’umana scienza e fantasia? E in che misura gli artisti, i filosofi, gli scienziati, gli scrittori ebrei dell’Ottocento e del Novecento, che hanno creato la civiltà moderna, devono o possono essere presi in considerazione per il loro essere ebrei? Se è difficile definire tale appartenenza sul piano dell’osservanza religiosa (dalla quale quasi tutti, sia pure secondo percorsi diversi, si sono allontanati, per lo meno sul piano del rispetto formale), fino a che punto è lecito, è giusto far discendere l’identità ebraica unicamente da una derivazione familiare? O forse tale identità va ricercata nelle domande poste, nelle risposte date o negate, nelle tematiche prescelte e nelle forme del linguaggio artistico o scientifico (sia pure da riconoscere sul piano impervio e desolato della destrutturazione del senso e della perdita del messaggio, nello spazio del silenzio e dell’assenza, di quella che Stéphane Mosès definì la mera “contemplazione delle macerie”)? Esiste, in definitiva, un “pensiero ebraico”? E che vuol dire tale espressione?
Sono domande, evidentemente, sulle quali ci si potrà interrogare in eterno. Eppure, se una sensazione di fondo è parsa emergere dal dibattito siracusano, è quella secondo cui le Sacre Scritture, quantunque abbandonate, quando non rinnegate, da molti figli del popolo ebraico, tornano, ai nostri giorni, a irradiare una magnetica forza di richiamo; a rivelarsi, per vie traverse, matrice arcana e segreta delle più diverse e lontane creazioni dell’arte, della narrativa, della scienza e della filosofia del Novecento e del nuovo millennio. Come il Mikvé di Ortigia, che, nuovamente riempito, dopo secoli, di acqua sorgente, sembrava comunque ispirare, dalla sua silenziosa oscurità, il 4 settembre, le inquiete interrogazioni che andavano intrecciandosi al piano sovrastante.

Francesco Lucrezi, storico