Ladri di sogni
Nell’ingiunzione «non ruberai» si è spinti a pensare immediatamente all’atto di chi infrange la proprietà e prende la roba altrui. Ma ci sono anche altre forme di furto, non punite, e non meno gravi. Lo dice la Torà; lo ripete più volte. «Non defraudare il salariato povero e misero, sia tuo fratello o forestiero che abita nel tuo paese, nella tua città» (Deuteronomio 24, 14). Chi lavora a salario non può essere dominato con durezza, né umiliato con mansioni inutili. E immediato deve essere il compenso della sua fatica. «Nel giorno stesso gli darai il suo salario, prima che tramonti il sole, perché è povero e verso quel salario solleva il fiato» (Deuteronomio 24, 15). Rubare vuol dire trattenere la paga, non dare il dovuto a chi ha svolto l’opera, non darlo per tempo. E in Levitico si ribadisce: «non opprimere i tuo prossimo e non rapire; non trattenere presso di te per tutta la notte, fino al mattino, il compenso per il lavoro» (19, 13).
Ma qui c’è una colpa ulteriore. Per la Torà il salariato, nel suo rapporto di dipendenza, è paragonabile alla vedova e all’orfano che non possono essere maltrattati. Chi non lo ricompensa, nella giornata, chi lo asservisce, è ladro due volte. Ladro del suo lavoro, della sua fatica, ma ladro anche del suo fiato. Lo opprime, perché gli toglie il respiro, e con il respiro la forza di guardare al domani, di avere un progetto, una speranza, un sogno. Lo umilia, lo colpisce nella dignità, lo calpesta nel cuore. L’amore chiede giustizia non solo per chi è affamato, ma anche per chi non può avere parte ai sogni.
Donatella Di Cesare, filosofa