La via di mezzo

Quanto scrive Rav Riccardo Di Segni sulla differenza fra i vari riti del qaddish – solo nel rito italiano si usa ripetere ogni giorno le’ela le’ela – richiama alla mente un antico ma indelebile ricordo. Un giorno, su una nave diretta in Israele, si cerca di fare tefillah e si raduna con molta fatica uno piccolo minian, fatto di ebrei di provenienze, lingue e riti diversi. A officiare si mette un amico di Roma, che segue naturalmente il rito italiano e, giunti al qaddish, recita il fatidico le’ela le’ela. Due o tre ashkenaziti presenti, parte integrante e necessaria di quello sparuto minian, cominciano a protestare interrompendo la tefillah e poco dopo lasciano la sala. Il minian viene meno e la tefillah finisce lì. Sembra l’inizio di un witz yiddish, e non lo è. Quanto poco basta a dieci ebrei per litigare e interrompere anche una mitzwah compiuta insieme. Forse si sarebbe potuto iniziare a studiare, su base halakhica, le alternative alla scelta di fuga dei dissidenti, o le possibilità di prosecuzione di quella tefillah privata del suo minian. E invece fuga e silenzio prevalsero per esprimere un’incomprensibile strategia di dissenso. Forse convinti, i contestatori, di star difendendo i principi sacri, dogmatici, indefettibili di una incredibile e iperurania halakhah. A riprova, invece, del fatto che la Torah dovrebbe essere in terra, e non in cielo. Ma, incomprensibilmente, il giogo dell’halakhah o non lo si vuole per niente o lo si vuole duro, perfetto e inalterabile. A noi umani, già così imperfetti, mutabili e incompleti, la via di mezzo non piace troppo: è troppo umana.

Dario Calimani, anglista