…mitzwot
Talora può capitare di scrivere con il tremore nella penna. Fra esperti di cultura ebraica ci si chiede se vi siano delle mitzwoth ‘dimenticate’. C’è chi cita il filo azzurro degli tzitzioth e chi l’incenso da bruciare nel Tempio, di cui non è stata tramandata la ricetta per timore che cadesse in mani idolatre. Qualcun altro cita la berachà da recitare quando ci si imbatte in una persona – o albero o animale – di estrema bellezza (‘shekàkha lo be’olamò’: ‘Benedetto Colui che ha queste cose nel Suo mondo’, TB, Berachot 58b). Non la si deve recitare perché, secondo i Posekim, non si è tramandato il criterio in base al quale considerare il bello. Si rischierebbe cioè di dire una berachà inutile (‘levatalà’), per una persona che non è poi così bella. E infatti, il Chafetz Haim suggerisce di evitare nella benedizione il Nome del Signore (Mishna Brura 225:10, commento 32), Ma si parla di persona bella fuori o bella dentro? E il bello, poi, (modelli greci a parte) non è sempre stato soggettivo? Chi può decidere a chi e a che cosa io debba donare il mio stupore? E se si evita di dire una berachà per timore di potersene pentire, non è forse quella una mitzwah perduta e una mancata lode al Creatore? Meglio una berachà per un motivo di cui ci si potrà ricredere o una berachà mancata? Sono interrogativi che affascinano la mente e affinano l’intelletto, ma che forse diventano pericolosi nelle mani di chi cerca di metterli in pratica senza una guida. Dunque, è forse una fortuna che si sia perduto il criterio oggettivo per il riconoscimento del bello. Le regole certe e rigorose, come ogni modello forte, sono un’imposizione che riduce lo spazio del dialogo e del dissenso. E poi, il senso del bello è preferibile tenerselo ben stretto, dentro di noi, come un segreto da custodire gelosamente. Il solo parlarne per condividerlo rischia di farlo sfiorire.
Dario Calimani, anglista