“Ma con che cosa se non con il mio canto”?

Nei giorni precedenti a Kippur, vorrei proporre la lettura della poesia-preghiera Sesoni rav bechà di Ibn Ghebirol, vissuto in Spagna nell’XI secolo, nella traduzione del rav Sergio Josef Sierra (La Corona regale, Firenze, 1990) che osserva: “Il poeta si confessa come un figlio al padre. Dio conosce tutte le sue debolezze, egli sa che l’uomo non ha nulla da offrirgli se non la lode. Egli sa che l’uomo è peccatore e cieco nei suoi errori e per questo il poeta implora Dio, che con la sua luce illumini l’oscurità della sua anima, che ricopra i suoi peccati, che indirizzi la sua umana volontà secondo il suo volere, e lo spirito umano sia un pegno in mano a Dio come un pegno nel cuore è il Nome di Dio.” (Alfredo Mordechai Rabello)

Grande è la mia gioia in Te, o Dio che risiedi nella mia dimora.
Ti ho ricordato ed ecco è scomparso il mio dolore,
Tua è ogni bontà e debbo lodarTi;
ma con che cosa se non con il mio canto?
I luoghi più eccelsi non bastano ad accogliere la Tua potenza.
Come potrebbe dunque abbracciarTi il mio pensiero?
Concedimi intelligenza, grazia, giustizia
e la mia volontà adempirà al tuo volere.
Accetta la mia lode come un tributo grazioso,
quasi fosse il mio sacrificio e la mia offerta.
O Dio, cui puro è lo sguardo! Volgi il tuo occhio alle mie afflizioni!
Manda la tua luce ad illuminare la mia cecità.
Riserbami la Tua immensa benevolenza
e rimangano segreti i miei grandi peccati.
Come il Tuo Nome è serbato nel mio cuore.
Così il mio spirito sia affidato in pegno nella Tua mano.