Il senso dell’appartenenza
Yom Kippur è il giorno più sacro del nostro calendario ebraico, viene considerato come uno Shabbat Shabbaton ed è per questo che anche quando Yom Kippur cade di Shabbat, come in questo anno, digiuniamo.
Una delle caratterisitiche di Yom Kippur è che il Bet Ha Knesset è pieno di persone, il Bet HaKnesset è come se fosse in festa nel vedere tutte queste persone al suo interno: le persone che lo frequentano tutti i giorni e tutti gli shabbatot, insieme a quelli che lo frequentano una sola volta l’anno ed anche quelli che ci entrano per la prima volta. Tutti insieme, siamo oggi nel Bet HaKnesset e tutti siamo uguali davanti a Dio, perchè è certo che Egli è contento nel vedere ognuno di noi nel Bet HaKnesset.
Mi sia permesso di cominciare la mia derashà con una domanda molto semplice, ma anche molto profonda e molto diretta e concreta.
Perchè veniamo in Sinagoga il giorno di Kippur? Cosa cerchiamo? Cosa ci porta a farlo? Cosa muove i nostri passi fino al Bet HaKnesset e fino alla Comunità in questa sera?
Mi piacerebbe, in questa occasione, avere un lungo confronto con voi riguardo a questa tema, mi piacerebbe ascoltare le vostre risposte ma, non potendolo fare, permettetemi di offrirVi alcune riflessioni su questa questione e darvi due chiare risposte. Fondamentalmente vorrei esporVi questo concetto:
Cerchiamo a Yom Kippur la nostra appartenenza ed il nostro significato.
Cosa si intende per “appartenenza”?
L’essere umano è un essere sociale, non può vivere in solitudine. L’essere umano ha bisogno di un segno di appartenenza, di una società alla quale appartenere. Il sentimento di appartenenza è parte della formazione della nostra identità ebraica ed è semplicemente una neccessità umana. Appartenere vuol dire esistere.
Rabbi Yehuda Leib Lazarov afferma che: “Colui che crede di poter vivere senza gli altri sbaglia”. “Ma – continua il rav – colui che crede che gli altri possano vivere senza di noi, ciascuno di noi, tuttavia sbaglia di più.” Detto in questa o altra forma simile il fatto è incontestabile: abbiamo bisogno degli altri e viceversa. Siamo una catena di mutue dipendenze e questo costituisce la parte più ricca, più significativa della nostra eperienza di essere umani. I momenti più felici e pieni tra quelli che abbiamo vissuto sono sempre stati vissuti in relazione con gli altri esseri umani con i quali siamo uniti da vincoli di amore, di considerazione e nella costruzione di progetti condivisi. Abbiamo bisogno della presenza dei nostri fratelli e del nostro prossimo come condizione per il nostro stesso esistere, per tutto quello che siamo e per aiutarci reciprocamente.
Una delle caratteristiche fondamentali della esistenza ebraica attraverso le generazioni è quella di essere vissuti in solitudine. Una delle caratteristiche della nostra vita ebraica contemporanea è la sensazione di solitudine.
Questo stesso elemento fu sottolineato da Bilam uno dei profeti non ebrei, quando disse:
“Lo vedo dalle alture, è un popolo che dimora in solitudine e non sarà contato insieme alle altre nazioni.”
Bilam riflette quello che vedono i suoi occhi: il popolo ebraico vive in solitudine. In solitudine in relazione agli altri popoli e alle altre nazioni, una solitudine non solo politica, ma anche sociale, psicologica, ed esistenziale.
Cosa è la solitudine?
La solitudine non è una realtà fisica. La solitudine è un sentimento soggettivo, personale e collettivo. Solitudine significa non sentirsi parte, essere differente, non appartenere. Solitudine significa sentirsi soli anche quando siamo circondati da mille persone. La solitudine è uno dei sentimenti più pericolosi e difficili che una persona possa provare.
Nel nome di nostro padre Abramo possiamo descrivere questo tipo di solitudine: Avraham HaIvrì- L’ebreo. Cosa significa Ivrì-l’ebreo? Tutto il mondo stava meever echad, su di un lato, mentre Avraham stava meever sheni, dall’altro lato.
La sensazione di solitudine comincia con Avraham Avinu, passa per il ghetto di Venezia, di Cracovia, di Torino fino a divenire la solitudine dell’uomo moderno.
L’unica possibilità di fronteggiare la solitudine è attraverso un sentimento di appartenenza, di relazioni con la nostra famiglia, la nostra comunità, i nostri fratelli ebrei ed il popolo di Israele.
A Yom Kippur arriviamo al Bet HaKnesset per non essere soli.
Cerchiamo di stare in famiglia, in Comunità. Non vogliamo essere soli, cerchiamo di sentirci parte di una Comunità di un popolo. Non vogliamo essere separati, cerchiamo un cammino di continuità ebraica. Cerchiamo un compremesso che ci permetta di educare i nostri figli…e i nostri nipoti.
Il sentimento di appartenenza si riflette nell’ebraismo nel concetto di “minian”, dei dieci uomini che compongono un minian. Il minian è qualcosa di assolutamente unico nell’Ebraismo: significa essere uno tra dieci, significa che nove hanno bisogno di uno, un minian vuol dire prendere parte, appartenere.
Cosa in intende per ‘significato’?
Fino ad adesso abbiamo spiegato la necessità dell’appartenenza per l’essere umano, ma l’appartenenza non basta abbiamo bisogno anche di significato…
L’essere umano è un essere alla ricerca del significato. Fin dal primo uomo, la domanda che Dio gli pone è: Aiekà’, Dove sei? Qual’è il significato della tua vita? Il richiamo a questo concetto è contenuto nel titolo del testo scritto dal famoso psicoanalista Viktor Frenkel, durante gli anni di internamento in un campo di concentramento: “L’uomo in cerca di significato”, arrivando poi a Primo Levi nel suo libro “Se questo è un uomo”. Entrambi presentano l’essere umano come un essere alla ricerca di un sentimento e di un significato: un essere che, a differenza di quanto succede nel regno animale, deve riempire la sua vita di sentimenti, di sensazioni.
A Yom Kippur, nel Bet HaKnesset, vieniamo a cercare il senso della nostra vita ebraica.
Un significato al di là dei libri, un significato che nasca dall’esperienza vissuta, dalle preghiere, dalle derashot, dai messaggi che si percepiscono all’interno dell’atmosfera di un giorno sacro ed esso stesso pieno di significato.
Uno grande rabbino chassidico, il Rabbino di Kotzk, rispose a questa domanda dopo aver avuto una discussione con un giovane studente.
Dopo che il ragazzo venne a visitare il suo maestro e passò con lui il giorno del Kippur, il rabbino gli chiese: ” Perchè vieni in sinagoga il giorno di Kippur?” Il giovane studente rispose: ” Per incontrare Dio.” Il Rabbino replicò: ” E’ un peccato che tu abbia perso il tuo tempo ed il tuo denaro per aver viaggiato da così lontano ed essere giunto qui, Dio è infatti ovunque, avresti potuto incontrarlo anche in casa tua!”
” Quindi- soggiunse il rabbino rivolto al giovane studente – qual’è il vero scopo della tua visita?” ” Sei venuto ad incotrare te stesso…”. Così rispose il rabbino.
Di Yom Kippur ci riuniamo nel Bet HaKnesset per “incontrare noi stessi”…non è una sfida facile, ma è necessaria, almeno un giorno l’anno, dobbiamo cercare noi stessi, in quanto ebrei, in quanto parte del popolo ebraico, come parte di una famiglia e di una comunità. Cerchiamo il nostro significato ebraico individuale e collettivo per portare avanti la nostra vita ebraica durante l’anno che è appena cominciato.
Cosa sono in realtà un Bet HaKnesset, una Comunità?
Sono il luogo dove veniamo a cercare appartenenza e significato.
Oggi nel mondo post moderno la continuità dell’Ebraismo non è un evento automatico come lo era per le comunità dei secoli passati e per questo ” appartenenza e significato” sono l’unica formula per poter mantenere e proteggere il nostro ebraismo.
rav Eliahu Birnbaum, rabbino capo di Torino