Serve il pluralismo

Il discorso letto da Rav Di Segni a Roma all’ora della Neillà citava un mio articolo ed è stato riprodotto a più riprese dalla stampa ebraica on-line. Alcune reazioni che si sono registrate alla pubblicazione di quell’intervento meritano un commento perché coinvolgono una più ampia dimensione nazionale di cui va dato conto. Messaggi e lettere fortemente irritate, provenienti da ebrei romani, genericamente identificabili con la “piazza” (di cui parlavo nel mio articolo), hanno completamente capovolto il senso delle parole mie e di quelle di rav Di Segni attribuendo agli intellettuali ebrei, e in alcuni casi soprattutto al sottoscritto, parole e pensieri mai espressi. L’equivoco è stato risolto in poche ore: bastava leggere con attenzione per capire che il mio ragionamento intendeva semplicemente segnalare e sottolineare l’allarmante approfondirsi di una spaccatura sociale fra l’ebraismo italiano vivo e reale (in cui mi colloco) e certa intellettualità di sinistra un po’ snob, non necessariamente ebraica. Tuttavia la reazione immediata e verbalmente aggressiva a una citazione forse pronunciata in un contesto non adatto, ci deve spingere a riflettere sulla tensione e sui toni esagitati usati in questi ultimi mesi di continue polemiche. Emerge un dato allarmante. A me sembra che da qualche tempo si vada chiedendo da più parti e in maniera diffusa una certa qual forma di monolitismo, di univocità, che si scontra senza speranza con una lunga tradizione di ebraismo “plurale” che è parte integrante dell’ebraismo italiano. Si tratta, a ben vedere, di una forma riflessa della politica nazionale italiana. Questa aspirazione all’omogeneità riesce senza dubbio ad animare uno spirito di corpo e un orgoglio (la piacevole e rassicurante sensazione di essere in tanti dalla stessa parte, di condividere parole d’ordine e valori) che aiuta a superare anche momenti difficili come quello che stiamo vivendo. Siamo sotto pressione, in gravissima crisi economica (molte nostre famiglie condividono le difficoltà di tanti altri in Italia, nel resto d’Europa e pure in Israele), e c’è sempre una pressione antisemita che incalza e che continua a sorprenderci. Ma colpire le voci diverse, emarginare le espressioni di dissenso, cercare di annullare il pluralismo delle nostre identità, non ci aiuterà ad affrontare questa crisi e ad uscirne più forti. E non aiuterà neppure Israele, una società che ci ha insegnato che la sua principale risorsa – più che nella forza del suo esercito – risiede nella capacità di resistere in maniera coesa mantenendo identità profonde e distinte.
Un ricco dibattito si è sviluppato sulla questione dei rapporti fra Israele ed ebrei italiani: numerosi interventi hanno arricchito le pagine di Moked e ci siamo variamente esercitati a distribuire diversi aggettivi (non sempre amichevoli) ai nostri interlocutori. Ma Israele – come ho già avuto modo di affermare – non è il vero problema. Il nostro essere comunità, a Roma come a Milano, Torino, Padova o Merano, non si misura sul nostro modo di intendere Israele, di amarlo, di esaltarlo o di criticare le scelte di questo o di quel governo. Noi siamo qui, ora, e lo siamo per scelta e per tradizione. Israele è non solo importante, ma fondamentale per noi. Ha resuscitato le nostre comunità diasporiche inviando shelichìm che ci hanno ri-educato all’ebraismo, ci ha insegnato nuovamente l’ebraico (a noi, che dalle coste pugliesi e calabresi lo avevamo a nostra volta insegnato, mille anni fa, a tutti gli ebrei d’Europa). Ci ha trasmesso l’orgoglio della nostra appartenenza. Credo però fermamente che il nostro essere ebrei non si riduca alla nostra relazione con Israele, ma venga completato e valorizzato soprattutto dalla nostra responsabilità di rappresentare una millenaria tradizione, di studiarla, insegnarla, commentarla, viverla, rinnovarla. Nella storia gli ebrei in Italia sono stati tante cose, mai omologhe fra loro. Ci sono stati romani, siciliani e pugliesi, tedeschi e spagnoli, ci sono stati marrani, sabbatiani, mistici e razionalisti. E in epoca più moderna assimilati, religiosi ortodossi, tradizionalisti, semiriformati, a cui si sono aggiunti negli ultimi decenni ebrei provenienti dalle edòth hamizrach e Lubavitch, oltre che nuovi riformati. Insomma, una grande articolazione, modi diversi di essere ebrei che pur nel contrasto dei sentimenti e delle pratiche si sono sempre fra loro riconosciuti (e a volte combattuti). La nostra forza, e quella di Israele, risiede ieri come oggi nel pluralismo, e sta a noi salvaguardarlo, per rispettare la nostra ricca e variegata tradizione.

Gadi Luzzatto Voghera, storico