Il lavoro dei banalizzatori
In un saggio di recente pubblicazione (L’ardore, Milano 2010), in cui vengono formulate alcune considerazioni sul gesto degli attentatori delle Torri gemelle (paragonato al rito sacrificale della ‘devotio’ romana, che vedeva un condottiero militare ‘consacrarsi’ agli dèi, e andare incontro alla morte, per salvare il proprio esercito: accostamento, in realtà, assai discutibile, rappresentando la ‘devotio’ un valoroso esempio di virtù militare, mentre quello dell’11 settembre costituisce solo un vile e ignobile crimine verso civili inermi e innocenti), Roberto Calasso formula alcune interessanti (quantunque, ancora, alquanto opinabili) considerazioni riguardo alla scelta, nel dopoguerra, del termine ‘Olocausto’ per indicare lo sterminio degli ebrei. Tale parola, nota Calasso, richiamava i riti sacrificali effettuati, in passato, nell’antico Israele, e così “lo sterminio di sei milioni di ebrei per opera dei nazisti veniva designato con il termine che indicava certe cerimonie sacre, celebrate fin dai tempi di Noè dagli antenati degli uccisi”. La scelta, naturalmente, fu assai infelice, ma, continua Calasso, “anche se qualcuno osservò che si stava compiendo una enormità, non venne ascoltato e la forza dell’uso impose la parola nelle varie lingue europee… Eppure, nella scelta inappropriata e stridente della parola ‘Olocausto’…operava una mano invisibile, che non era solo la mano dell’ignoranza. In quella parola si accennava a qualcosa che oscuramente si stava profilando. La guerra aveva soppiantato il sacrificio, ma il sacrifico era sulpunto di soppiantare la guerra. Lo stermino degli ebrei, nelle sue procedure, era stato qualcosa di intermedio tra il mattatoio e la bonifica. E avrebbe avuto luogo in tempo di pace, come una gigantesca operazione di smaltimento di rifiuti. Perciò i termini militari non si attagliavano più. Perciò veniva spontaneo, orribilmente spontaneo, ricadere nella terminologia del sacrificio”.
Il punto sollevato meriterebbe una lunga discussione, che non è il caso di fare in questa sede. E’ senz’altro vero che la singolare scelta della parola ‘Olocausto’ nacque, soprattutto, dall’esigenza di adoperare un termine ‘nuovo’ e ‘ad hoc’, adatto all’assoluta novità ed enormità di quanto era successo, ed estraneo alle consuete categorie adoperate per le ‘normali’ violenze della guerra. Ma non è vero che ciò che era accaduto potesse, in qualsiasi modo (sia pure secondo la logica perversa del ‘mattatoio’ e della ‘bonifica’) richiamare l’idea del sacrificio, che restava in ogni caso, e secondo ogni ottica, quantunque deformata, del tutto lontana dalla realtà del genocidio. Non va dimenticato, soprattutto, che la parola fu adoperata, dapprima, negli Stati Uniti, e fu importata in Europa proprio per il suo carattere apparentemente ‘esotico’ e ‘arcano’. In Europa, anche quando si narravano le vicende dell’antico Israele, non si adoperava spesso la parola ‘olocausto’, cosicché il significante (oscuramente suggestivo ed evocativo) appariva, per così dire, ‘libero’, disponibile per un nuovo significato. La nuova coppia significante-significato prese rapidamente piede, tanto che oggi la parola ‘Olocausto’ indica, pressoché esclusivamente, lo stermino, e non più il sacrifico rituale (atto per il quale, all’occorrenza, si preferisce usare differenti espressioni). Ma, come è fatale che accada, il termine, coniato per indicare qualcosa di unico, terribile e irripetibile, e considerato efficace per tale scopo specifico, è stato rapidamente ‘rubato’ per altre, molteplici funzioni: e si sono così moltiplicati gli ‘olocausti’ di popoli e soggetti vari, sottoposti ad angherie e persecuzioni di diverso tipo e di varia gravità. La parola, scelta per la sua ‘unicità’, si è andata quindi gradualmente inflazionando e banalizzando, tanto da perdere, in buona parte, il suo carattere solenne e ‘sacrale’. Si è reso necessario, così, l’uso di un altro termine, e la scelta è caduta sulla parola ebraica ‘Shoah’, annientamento – decisamente più appropriata di Olocausto -, che, com’è noto, ha incontrato un largo e rapido successo, andando praticamente a sostituire, pressoché ovunque in Europa – non in America, dove resiste ‘Holocaust’ – il vocabolo precedente.
Ma il tarlo della banalizzazione, si sa, non si arresta mai, così come il lavoro dei banalizzatori. È recente, per esempio, il grido di dolore di un noto politico italiano, innanzi allo scempio della situazione carceraria italiana, nella quale si anniderebbero “pezzi di Shoah”. Prima o poi, forse, occorrerà un’altra parola.
Francesco Lucrezi, storico