Davar acher – La vita degli ebrei

La notizia dell’accordo raggiunto per la liberazione di Gilad Shalit ha emozionato tutti gli ebrei e gli amici di Israele nel mondo. Il giudizio politico e militare sull’opportunità della scarcerazione di tanti temibili ed esperti terroristi in cambio di un solo soldato – peraltro privo di competenze o conoscenze particolari, senza nessun’altra speciale qualità a parte il suo essere una persona, un ragazzo, un ebreo – ha diviso l’opinione pubblica israeliana. Ma anche quelli che col ragionamento sono rimasti perplessi o contrari al rilascio di criminali pronti a ripetere i loro attacchi, col cuore sono stati certamente felici: perché davvero l’idea che tutti gli ebrei sono responsabili gli uni verso gli altri, sono in un certo senso una sola famiglia, non è un principio astratto, ma un’esperienza concreta, un modo di vivere. Non entrerò in questa discussione, perché credo di non averne il diritto, vivendo in Italia, senza subire se non di riflesso i rischi degli attentati e della cattura dei colpevoli. Credo però che chi parla di una dirigenza israeliana incapace di decidere, paralizzata, isolata, immobilista, dovrà ricredersi, perché il rischio che si è assunto Netanyahu con la sua decisione è grande e certo non preso a cuor leggero.
Credo che questa sia anche l’occasione in cui noi, ebrei della diaspora, dobbiamo ringraziare chi ci è stato vicino, le città che hanno esposto il ritratto di Gilad sui municipi, che hanno compiuto atti simbolici come oscurare i monumenti, che gli hanno concesso la cittadinanza. Grazie, ci fanno pensare che la pianta dei Giusti delle nazioni non sia isterilita in questi anni difficili. Anche questo è un pensiero che allarga il cuore.
Ma anche senza entrare nella difficile discussione sul prezzo del riscatto e senza mettersi a fare dietrologia politica (l’umiliazione di Abu Mazen e della Turchia tagliati fuori dallo scambio, l’esistenza di un canale che continua col governo egiziano, la funzione della mediazione tedesca, finalmente un gesto positivo da parte dell’Europa), ci sono delle ragioni di amarezza profonde. Gli ebrei si catturano, si rapiscono: Hamas ha subito promesso che si provvederà il ricambio a Shalit. Si prendono e si usano come materiale di scambio per ciò che si vuole ottenere. L’ha fatto il III Reich, chiedendo oro (per esempio a Roma, prima del rastrellamento del ’43 di cui oggi ricorre l’anniversario), l’hanno fatto per secoli sovrani europei e arabi, inquisizioni, cosacchi, fino agli islamisti di oggi.
La vita degli ebrei per tutti costoro non vale niente, può essere umiliata o distrutta senza rimorsi, ma viene venduta a caro prezzo: mille a uno, in questo caso. Un po’ di solidarietà dal resto del mondo arriva, ma vi manca l’indignazione. Si condanna, ma in fondo si comprende. In questo momento la parola indignazione è diventata merce comune, produce piccoli best seller ipocriti come quello di un signore francese che non nomino, o induce a gettare sassi sulla polizia e uova sulle banche, come se il loro mestiere fosse una colpa morale e il collettivismo economico non avesse mostrato ampiamente il suo fallimento, o come una società potesse reggere senza forze dell’ordine. E ci si indigna naturalmente contro Israele, che “ruba la terra” agli arabi eccetera eccetera.
Ma contro il sequestro di un ragazzo, il furto di cinque anni della vita sua e della sua famiglia per puro profitto, invece non ci si indigna. Non ci sono Ong che protestano, non si fanno manifestazioni. Non si dice che i palestinesi sono pieni di criminali che rapiscono la gente, sgozzano i bambini, ammazzano gli handicappati a sangue freddo, mettono bombe nei ristoranti e negli autobus. Ora è provato che i criminali, i pazzi sadici ci sono dappertutto, e questa potrebbe essere una giustificazione. Ma quel che non si dice, e per cui certamente non ci si indigna, è il fatto che questi gesti sono per lo più freddamente calcolati e programmati dai loro mandanti, sono insomma crimini premeditati anche se compiuti da esaltati. E soprattutto che chi li compie non è rifiutato, condannato, ostracizzato, ma anzi al contrario onorato e ricordato come un eroe. Cinquant’anni fa, al momento del processo Eichmann, Hannah Arendt coniò lo slogan profondamente equivoco e sbagliato della “banalità del male”. Voleva indicare che le SS facevano il loro sporco lavoro convinte che fosse un dovere quotidiano, come qualunque altra incombenza. Ma per questo “dovere” venivano premiati e promossi. I terroristi palestinesi fanno sostanzialmente le stesse cose e per le stesse ragioni. Come i nazisti rapiscono, uccidono stuprano mutilano. E come loro lo fanno “per la patria”. Ma nessuno si indigna contro di loro oggi. Forse per le stesse ragioni per cui nessuno si indignava settant’anni fa. Perché le vittime allora erano ebrei, affamatori del popolo, nemici della nazione, razza inferiore. E oggi sono ebrei coloni, esercito di occupazione, affamatori dei popoli, nemici delle nazioni.

Ugo Volli