Qui Gerusalemme – In Succà

Molti anni fa andai a trovare per Chol Hamo’ed di Succot l’avvocato Alfonso Pacifici z.l., a Gerusalemme, nel quartiere di Gheula degli anni 60, periodo in cui vi abitavano ancora anche famiglie non osservanti.
Dopo aver chiesto l’autorizzazione della moglie a indossare la giacca bianca (in onore di Chol hamoed) Pacifici mi invita ad accompagnarlo nel suo programmato giretto nel cuore di Gheula. L’atmosfera è quella propria delle mezze feste: da un lato è festa, ma dall’altro puoi andare a rifornirti di quello che ti è necessario per la festa stessa, in particolare di cibo.
La nostra attenzione si sofferma sulle Succot; Pacifici mi parla della grande importanza di quello che è mobile, non duraturo “e quindi eterno”. Vedi, mi dice, una fragile mezuzà, una succà cadente fanno parte integrale della nostra vita di mizvot; il Beth Hamikdash, con la sua maestosità, con le sue grandi pietre non è più con noi… dopo un momento di silenzio, mi dice: “guarda che bello, ognuno ha la sua succà”.
Gli faccio osservare a mia volta: “quella è stata fatta sotto una terrazza; è come se non avesse fatto nulla…”: le mie ultime parole sono accolte da un sonoro: “Nossignore; non ti permetto di dire così”; reagisco timidamente: “sinceramente non credo che si possa dire che jazà iedé chovatò (è uscito dall’obbligo di compiere la mizvà); e Pacifici: “spero che tu veda la differenza fra le due espressioni; non si può dire che chi ha fatto uno sforzo per compiere la mizvà sia come uno che non abbia fatto nulla; ha fatto una succà pesulà, che ha per lo meno il ricordo della succà”.
Fui molto grato al Maestro per questo insegnamento (con questo non si pensi che l’avvocato Pacifici non fosse rigido con se stesso; per esempio ricordo benissimo come non abbia voluto mangiare carne in casa dei miei a Bologna, durante la visita che ci fece); più tardi, ripensandoci trovavo appoggio nell’insegnamento avuto anche dal rav Dario Disegni quando mi diceva di abituare gli ebrei di Mantova a mangiare carne casher anche se non avessi potuto assicurare l’osservanza di molti particolari: “se li lasci mangiare taref proseguiranno a farlo; se li abitui a mangiare casher puoi sperare che sia solo l’inizio del ritorno”; ripensavo ancora alla splendida lezione che aveva tenuto, su mio invito, il rav Elia Samuel Artom, agli ebrei di Mantova su “La riconquista graduale delle Mitzvot”.
Pacifici, Disegni, Artom: tutti allievi a Firenze del rav Margulies: si poteva vedere in questo il segno della linea educativa del grande Maestro? Allora, quando forse avrei potuto avere una risposta, non chiesi; oggi non saprei più a chi rivolgermi.
L’insegnamento dell’avvocato Pacifici si può ricollegare all’insegnamento profetico di Amòs (9:11): “In quel giorno solleverò la cadente capanna di David…”: il regno di David è chiamato qui succà, mentre normalmente viene chiamato con “bait” (malchut bet David): la succà anche una volta caduta, si può risollevare facilmente e da qui l’uso del verbo akim: in questa succà possono sedere tutti gli ebrei, di nascita o gherim, anche quei “peccatori” che erano con noi al Beth Hakeneset il giorno di Kippur: “Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne” (Lev.23:42) ed il Talmud (Succà 27b) commenta: “Tutto Israel è degno di sedere in una sola succà”: per tutti noi, quindi, una sola succà per sentire in ognuno un nostro fratello. Mo’adim lesimchà.

Alfredo Mordechai Rabello, giurista