Ricordare Ron Arad

Commentando la tragica detenzione di Gilad Shalit, avevo avuto modo di osservare (sulla newsletter del 3 febbraio 2010) che ogni ragionamento, sul piano della Realpolitik e della razionalità, spingeva contro la conclusione dell’onerosissimo scambio (il cui spropositato prezzo avrebbe innegabilmente comportato gravi rischi per la sicurezza di Israele, offrendo ai terroristi un grande successo politico e di immagine, che ne avrebbe, con ogni verosimiglianza, premiato e rafforzato la vocazione violenta, senza contare lo scempio di legalità e di giustizia rappresentato dalla liberazione di centinaia di spietati assassini); ma che le ragioni del cuore spingevano nella direzione opposta. Ha prevalso il cuore, come era giusto che fosse, come voleva ogni cittadino di Israele, ogni ebreo, ogni persona di cuore. E la scelta del governo di Gerusalemme si rivela quindi giusta e doverosa anche sul piano della razionalità, perché andare incontro a questo desiderio profondo del Paese ha significato cementarne l’unità, la fiducia, la forza d’animo, lo spirito di coesione, rimarcare l’immensa gratitudine e la totale solidarietà nei confronti dei giovani soldati chiamati, giorno per giorno, a difendere il Paese. Ossia la vera, unica “arma segreta” di Israele, quella che ha permesso di superare le prove più disperate, di prevalere contro qualsiasi nemico.
Nel condividere l’infinita gioia della famiglia di Shalit, ci sentiamo vicini ai tanti familiari di quelle vittime dei vili atti terroristici i cui autori tornano oggi in libertà, accolti come eroi. Se la detenzione degli assassini non era certo di conforto, la loro liberazione (quantunque compresa e approvata nelle sue motivazioni) riapre antiche ferite, lacera l’illusione che l’umana giustizia possa, in qualche modo, rappresentare una risposta al male. E ci sentiamo vicini, soprattutto, alla famiglia del pilota Ron Arad, anch’egli rapito (in Libano, nell’ottobre 1986), e di cui i carcerieri (dopo un video registrato e diffuso nel 1987, in cui si dimostrava che era in vita) non hanno più fatto sapere nulla. La sua famiglia non solo non ha una tomba su cui pregare, ma non sa neanche se possa effettivamente pregare per la sua anima, o non continuare, assurdamente, a sperare che sia ancora vivo, dopo 25 anni di prigionia. Nato nel 1958, oggi avrebbe 53 anni.
Sul piano politico, gli auspici, formulati anche da autorevoli cattedre, che lo scambio di prigionieri concluso tra Israele e Hamas possa avviare una nuova stagione di dialogo e comprensione, fanno semplicemente sorridere. Mai come in questa occasione Israele e i suoi nemici sono apparsi separati da un autentico abisso, sul piano non già politico, ma etico e umano. I palestinesi non sono certo i soli a volere a casa propria dei concittadini detenuti all’estero. Anche l’Italia, per esempio, reclama Cesare Battisti. Ma lo fa affinché sconti la propria pena nelle patrie galere, non certo per portarlo in trionfo. Ma per i terroristi di Hamas la sola idea che qualcuno di loro possa essere non già punito, ma neanche blandamente rimproverato per avere fatto qualcosa contro il popolo d’Israele (neanche i crimini più orrendi, le strage più efferate) rappresenta qualcosa di inconcepibile. Su questi presupposti, l’idea che un domani, quantunque lontano, sia possibile trovare con queste persone un sia pur minimo spazio di intesa, appare, purtroppo, semplicemente una favola.

Francesco Lucrezi, storico