Davar acher – Rabbini

E’ uscito di recente un libro breve ma molto interessante di Gadi Luzzatto Voghera dedicato alla storia della figura dei Rabbini (Laterza, pp. 131, € 12). Mi piace segnalarlo per indicare ancora una volta che esiste una cultura ebraica viva che fa ricerca e pensiero intorno alla vita del nostro popolo, e non si limita a esporre le cose belle del passato o a rievocarle sentimentalmente. Ma anche perché questa piccola storia del rabbinato si può utilmente mettere in relazione al dibattito che si è aperto di recente proprio su questo sito sul ruolo dei rabbini nell’ebraismo italiano contemporaneo, in seguito a due interventi di Rav Riccardo di Segni, il suo discorso di Rosh Hashanà e il suo intervento di qualche mese fa che confrontava le diverse popolarità fra i giovani del mestiere del giornalista e di quello del rabbino.
Il libro di Luzzatto Voghera è opera di storia e mette quindi in evidenza per dovere istituzionale i cambiamenti, più che le continuità. Ma mostra in maniera molto convincente che la figura del rabbino è cambiata nel corso dei secoli ancor più di quanto abbia fatto l’ebraismo in generale; anzi che non vi è affatto continuità semplice fra il rabbinato attuale e il modello ideale dei maestri del Talmud; che per esempio vi sono state epoche storiche abbastanza lunghe dell’ebraismo, per esempio il Medioevo, in cui non era presente una figura professionale come la intendiamo noi oggi e neppure il nome Rav – anche se vi erano sapienti, esperti di Torah e di halakhà. Mostra soprattutto che la grande discontinuità dell’emancipazione rinnova profondamente il ruolo dei rabbini, che passano dal ruolo primario di giudici e maestri di Torah a quello di “custodi della tradizione” e suoi rappresentanti, avvicinandosi inevitabilmente ai modelli sociali dei preti cattolici e dei pastori protestanti, a seconda del paese e del filone di ebraismo.
Questa evoluzione è avvenuta malgrado la convinzione e la volontà dei rabbini, io credo, che avrebbero sempre preferito studiare e formare altri studiosi, prendere decisioni halakhiche piuttosto che fare i “parroci” e limitarsi a condurre il culto e a fare i consiglieri spirituali. Ma è dovuta all’assimilazione e alla progressiva perdita di competenza ebraica diffusa fra gli ebrei del mondo occidentale, che richiede oggi un ruolo di custodia, di attrazione, di rappresentanza e perfino di “propaganda” – qualcuno ricorderà che questa parola viene dal dipartimento vaticano “de propaganda fide”: noi non siamo da duemila anni una religione che miri a “propagarsi”, ma abbiamo il problema di ritornare nelle menti dei “lontani” per farli a loro volta tornare.
Insomma, il ruolo dei rabbini si è omologato, esaltato e insieme un po’ isterilito in concomitanza con la trasformazione dell’ebraismo occidentale da popolo attaccato e competente sulle sue tradizioni a semplice religione da ricordare solo nelle circostanze principali del ciclo della vita e magari nelle maggiori feste. La delega ai rabbini della liturgia, che invece nella tradizione ebraica dopo la distruzione del Tempio è attribuita alla comunità e alla famiglia, è conseguenza e non causa del distacco dal sapere ebraico e dell’impoverimento culturale delle comunità. Con il che torniamo al problema centrale dell’ebraismo contemporaneo, quello della formazione culturale, della capacità di far vedere di nuovo la tradizione non come insieme di formule inerti e poco interessanti, ma come un tesoro straordinario di pensiero e un modello di vita pieno e ricco, capace di confrontarsi con la modernità.

Ugo Volli