Le contraddizioni dell’ebreo diasporico

Sono appena finite le grandi feste autunnali. Gli ultimi due giorni festivi sono stati Sheminì Atzèret (l’Ottavo Giorno di Conclusione) e Simchàt Torah (la Gioia della Torah). Così è nella Golà (diaspora), perché invece in Israele le feste durano un giorno in meno e Simchat Torah coincide con Sheminì Atzeret. Nell’antichità l’aggiunta di un giorno di festa nella diaspora era necessaria per l’impossibilità che gli inviati del Beth Din (tribunale) centrale di Gerusalemme arrivassero in tempo in tutti i paesi della Golà ad annunciare il giorno in cui era caduto Rosh Chodesh (capo-mese), in base al quale si calcolava il giorno della festa. Dato che il mese lunare, su cui è in parte regolato il calendario ebraico, può essere di 29 o 30 giorni (il ciclo lunare è di circa 29 giorni e mezzo, ma il mese non può terminare a metà della giornata, per ovvi motivi), nel dubbio si aggiungeva nella Golà un giorno festivo (Yom Tov shenì shel galuyot). Oggi, in cui non c’è bisogno degli inviati per sapere quando cadono le feste perché da circa 1700 anni il calendario è calcolato in modo preciso, senza incertezze, si continua comunque a festeggiare nella Golà il giorno aggiuntivo in ricordo di quello che facevano i nostri Padri. Per questo motivo, Pesach in Israele dura 7 giorni, di cui il primo e il settimo sono di festa solenne (Yom Tov), mentre nella Golà dura 8 giorni e sono di festa solenne i primi due e gli ultimi due. Ugualmente, Shavuot dura in Israele un giorno e nella Golà due. Sukkot dura in Israele 7 giorni, dei quali solo il primo è di festa solenne, mentre nela Golà sono due i giorni di festa solenne. Subito dopo Sukkot viene Sheminì Atzeret/Simchat Torah, che è una festa autonoma e a sé stante. Qui però si pone un problema. Sukkot, nella Golà, dovrebbe durare 8 giorni, ma il giorno aggiuntivo coinciderebbe con Sheminì Atzeret. Come fare? Da una parte dovremmo mangiare nella sukkà (capanna), recitando l’apposita berakhà (benedizione), ma d’altra parte non è prevista la mitzvà della sukkà nel giorno di Sheminì Atzeret. Se in questo giorno si stesse nella sukkà e si recitasse la berakhà si incorrerebbe nel divieto di bal tosìf (non aggiungere alle mitzvot della Torah, analogo al divieto di non togliere, bal tigrà’). È questo un tipico esempio di situazione intrinsecamente contraddittoria, ciò che la letteratura rabbinica definisce come Tarte de-satre (due che si contraddicono). La soluzione proposta da molti rabbini antichi e moderni, fra cui gli autori dello Shulchan Arukh, è di stare in sukkà senza però recitare l’apposita berakhà, ma anche questa è una situazione contraddittoria (compiere una mitzvà senza berakhà). Altri rabbini non accettano questa soluzione e non reputano necessario stare in sukkà nel giorno di Sheminì Atzeret. Ma anche così si cade in contraddizione, perché in tutte le altre feste si aggiunge un giorno e in questo caso no. Altri ancora suggeriscono di stare in sukkà ma solo di giorno, non la sera iniziale di Sheminì Atzeret. Altri approfittano di qualsiasi motivo per non dover entrare in sukkà, ad esempio se fa un leggero freddo (che durante Sukkot non avrebbe permesso di uscire dalla sukkà). E c’è anche chi consuma metà pasto dentro la sukkà e metà fuori. Qualsiasi soluzione, però, ha in sé qualcosa di contraddittorio. Solo vivendo in Israele si riuscirebbe a festeggiare Sheminì Atzeret in modo semplice e lineare.
Questa discussione può apparire a molti eccessivamente tecnica, ma è in realtà emblematica della condizione degli ebrei diasporici, che è essa stessa intrinsecamente contraddittoria. Lo è a livello esistenziale. Siamo ebrei? Siamo italiani? Italiani ebrei? Ebrei italiani? O magari col trattino, e chi viene prima? Qualcuno potrebbe dire che la soluzione è andare tutti in Israele. Giusto. Ma forse ci piace vivere in Golà e vivere in una perenne contraddizione, non solo fra di noi (ça va sans dire), anche dentro di noi.

Rav Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano