Il negazionismo islamico
È noto che Ahmadinejad, soprattutto negli ultimi anni, è stato spesso paragonato a Hitler. Come ogni paragone, anche questo ha una certa fastidiosa banalità. Eppure porta con sé una domanda inevitabile: c’è stato storicamente un nesso tra il progetto nazista dello sterminio e il negazionismo islamico? E su quale affinità avrebbe potuto stabilirsi?
Una risposta è offerta dal libro di Jeffrey Herf, uscito da poco in italiano, che ha per titolo: «Propaganda nazista per il mondo arabo». L’autore ha raccolto una grande quantità di documenti attraverso i quali ricostruisce la strategia e i contenuti che la Germania di Hitler impiegò per cercare nuovi alleati tra arabi e musulmani.
Dall’autunno 1939 al marzo 1945 il regime nazista si spinse oltre l’abituale eurocentrismo impegnandosi in una propaganda in lingua araba, attraverso libri, materiale stampato, milioni di volantini e trasmissioni radio a onde corte. Per altro verso il radicalismo arabo e islamico entrò in contatto con il dispositivo totalitario funzionante nell’Europa di Hitler. Questa bizzarra convergenza tra «Mezzaluna e svastica» – è il titolo del libro dei due storici tedeschi Klaus-Michael Mallmann e Martin Cüppers, uscito nel 2006 – fu dettata da esigenze politiche. Dagli archivi militari, non più protetti dal segreto, è emerso che dietro le quinte dell’avanzata di Rommel, fermato a El Alamein, fervevano i preparativi per l’annientamento degli ebrei del Medio Oriente e del Nord Africa, in particolare ovviamente per gli oltre 600.000 ebrei che vivevano nella Palestina del mandato britannico. Per preparare il terreno, nel 1939 furono tradotti in arabo Mein Kampf e i Protocolli dei Savi di Sion. Ma l’effetto fu limitato. Si trattava pur sempre di testi estranei alla tradizione araba. Per tal via, però, i Protocolli, trovata protezione in Medio Oriente, furono riciclati in Europa negli anni sessanta. Ad agevolare la propaganda nazista fu invece Haj Amin el Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme. Tenace oppositore della Dichiarazione Balfour del 1917, guidò la rivolta araba contro gli inglesi nel 1936 per riparare infine, fra numerose vicissitudini, a Berlino dove incontrò Hitler. Tra i due si stabilì un rapporto di reciproca ammirazione, documentato anche dalla corrispondenza. Husseini, che collaborò con Himmler e fu a conoscenza della Shoah, contribuì a sostanziare la convergenza d’intenti tra il nazismo e l’integralismo islamico. Non era d’altronde difficile. In un telegramma inviato al Gran Muftì il 2 novembre 1943 Himmler dichiarò: «sin dalla sua nascita il movimento nazionalsocialista ha iscritto nella sua bandiera la lotta contro l’ebraismo mondiale. Perciò ha sempre seguito con simpatia la battaglia degli arabi […] contro gli intrusi ebrei».
Fu così che, con un’abilissima strategia, i nazisti perseguirono un duplice scopo: per un verso cercarono di propagandare una versione dell’antisemitismo, ripulito degli elementi razzisti, in chiave esclusivamente antisionista; per l’altro, forti anche degli studi di orientalistica, in cui la Germania allora eccelleva, mirarono ad una interpretazione del Corano che ne mettesse in luce i motivi antiebraici. Il che fornì al nazismo un accesso al mondo culturale arabo e islamico dove la propaganda riuscì a oltrepassare barriere apparentemente insuperabili e a mettere salde radici. La radio nazista in lingua araba non smise di ripetere ossessivamente che erano stati gli ebrei a scatenare la seconda guerra mondiale per poter fondare lo «Stato ebraico» ed estendere il loro dominio sul mondo.
Fu questa la cornice nella quale, a partire dal 1948, si cominciò a negare la Shoah, un «mito» che sarebbe stato sfruttato per ricattare la Germania e fondare lo Stato di Israele. Il negazionismo si è diffuso da allora nella stampa araba, dove già era emerso il mito del «complotto». Iran, Siria, Giordania, Libano, Egitto, Qatar, Arabia Saudita sono stati attraversati da un’ondata di negazionismo che non si è mai affievolito e che ha trovato in Ahmadinejad un nuovo propulsore.
Donatella Di Cesare, filosofa