Niente da discutere

E così, com’era ampiamente prevedibile, l’agenzia dell’UNESCO, a larga maggioranza, ha concesso alla Palestina lo status di membro a pieno diritto. I numeri parlano chiaro: Israele (se qualcuno non lo avesse ancora capito) non è particolarmente amato nella comunità delle nazioni. Se i voti espressi dovessero effettivamente riflettere il livello dei sentimenti prevalenti nel mondo nei confronto dello Stato ebraico (ed è probabile che, più o meno, sia davvero così), il quadro sarebbe alquanto eloquente: 107 sì, 52 astensioni, 14 no. Certo, dire che Israele conti, nel mondo, 13 ‘amici’, 52 ‘indifferenti’ (tra cui l’Italia) e ben 107 ‘nemici’, sarebbe una semplificazione eccessiva. Non è detto che i 107 siano tutti nemici, così come non è sicuro che i 13 siano davvero tanto amici, e che le posizioni dei 52 siano tutte simili. Un voto a favore della Palestina, dicono in molti, non significa un voto contro Israele. In un certo senso, ciò può anche essere vero, e bisogna riconoscere che la nuova strategia diplomatica giocata dagli arabi nell’ambito delle Nazioni Unite si è rivelata certamente un successo, in quanto pone i palestinesi nella posizione di qualcuno che chiede legittimamente, con metodi legali e pacifici, in un autorevole consesso internazionale, il riconoscimento di semplici, normali diritti. Una posizione senz’altro adatta a suscitare simpatia, comprensione, sostegno, almeno quanto scomodo e ‘antipatico’ appare il ruolo di Israele, che si ostina, pervicacemente, a dire “no, tu no”. Il pesante contenzioso sul tavolo, tutte le molteplici questioni irrisolte (il terrorismo, le armi, i confini, i profughi, la natura ebraica di Israele, Gerusalemme, Hamas ecc. ecc.) scompaiono, per lasciare sul campo un’unica, semplice richiesta da parte palestinese: quella di esistere come nazione. Difficile, in effetti, dire di no. Ma il problema (un problema che, ovviamente, ci si guarda bene dall’affrontare in sede ONU) è se dire di sì significhi dire di sì a uno stato accanto a Israele, oppure al suo posto. Ma di questo non si deve parlare, in nessun modo, perché il farlo complicherebbe le cose, imporrebbe ai palestinesi di rinunciare alla loro proverbiale ambiguità, impedirebbe a Francia, Belgio, Spagna di votare tranquillamente insieme a Iran, Siria, Libano. Questi Paesi hanno posizioni comuni sulla soluzione del problema del Medio Oriente? Non importa saperlo, anzi, non si deve sapere, basti che siano tutti “pro-Palestina”. Cosa, poi, sia la Palestina, resterà, per sempre, un mistero.
Quello che è assolutamente evidente, è che questa battaglia diplomatica internazionale affossa completamente ogni possibile idea di una soluzione negoziata del conflitto. La sola idea di un dialogo, di un tavolo di trattativa (sia pure, come tante volte è accaduto in passato, solo a livello di scena, tanto per “far vedere” e perdere un po’ di tempo) appare morta e sepolta. Non c’è niente di cui discutere, niente su cui trattare: la Palestina ha soltanto diritti, nessun dovere, deve unicamente reclamare, pretendere, esigere, ottenere ciò che è suo di diritto. Il mondo deve ascoltare questa voce, accogliere tali richieste. E Israele deve soltanto subire, cedere. Non si sa – e, ripetiamo, non si deve sapere – in che misura, fino a che punto.
“Possiamo sperare in tempi migliori, avere pazienza, aspettare, rassegnati alla volontà divina, che i prìncipi e i popoli della terra abbiano un atteggiamento più benevolo nei nostri confronti?”. Tale domanda pose, nel suo Judenstaat, 115 anni fa, Theodor Herzl, per motivare la sua proposta di soluzione per la “questione ebraica”: una patria per gli ebrei. La patria sarebbe nata, ma “i prìncipi e i popoli della terra” avrebbero manifestato verso di essa lo stesso atteggiamento riservato, nei secoli e millenni precedenti, agli ebrei dispersi in esilio. Ciò non fu previsto da Herzl. Ma siamo certi che, comunque, la sua scelta non sarebbe cambiata. Così come, certamente, non cambierà mai la nostra.

Francesco Lucrezi, storico