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Qui Roma – Shechitah, un confronto a rischio

Gli animali e la sofferenza: La questione della shechità. Questo il titolo del convegno dedicato alla macellazione rituale ebraica in programma domenica 6 novembre alle 16 al Centro Bibliografico Tullia Zevi dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Organizzato dall’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas, dal Collegio Rabbinico Italiano e da La Rassegna Mensile di Israel, il confronto vedrà gli interventi di Claudia De Benedetti (vicepresidente UCEI), Tobia Zevi (Associazione Hans Jonas), Laura Quercioli Mincer (docente di letteratura ebraica), Mino Chamla (docente di filosofia), Stefano Cinotti (direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna), Gianfranco Di Segni (rabbino e biologo), Giacomo Saban (direttore de La Rassegna Mensile di Israel), Eligio Resta (professore di Filosofia del diritto – Università di Roma 3), Riccardo Di Segni (rabbino capo di Roma, direttore del Collegio rabbinico italiano). Gli atti saranno pubblicati da La Rassegna Mensile di Israel.

“Voi macellerete come Io vi ho comandato”(Devarim 12,21). Su questo precetto si fonda la Shechitah, la macellazione rituale della tradizione ebraica. Una pratica tramandata nei secoli che si basa su precisi regolamenti previsti nella Torah orale. E che oggi in alcune realtà è messa sempre più in discussione perché considerata brutale e inaccettabile perché non prevede che l’animale venga preventivamente stordito.
In realtà, affermano i rabbini, il principio su cui si fonda la Shechitah è esattamente opposto: ridurre al minimo la sofferenza dell’animale. Non a caso il compito della macellazione nella tradizione ebraica è affidata allo shochet, un esperto a cui è richiesto di seguire un lungo percorso di formazione teorica e pratica. Nello specifico il compito dello shochet è quello di recidere rapidamente, con un coltello lungo, molto affilato e senza dentatura, l’esofago, la trachea e la vena giugulare dell’animale. Pratica che per l’ebraismo è considerata la meno dolorosa. E ad oggi nessuna ricerca scientifica è riuscita a dimostrare in modo incontrovertibile il contrario. Inoltre la ritualità della Shechitah sottolinea il valore sacrale conferito alla vita dell’animale, una forma ulteriore di rispetto nei confronti dell’essere vivente. Molti animalisti puntano il dito contro la macellazione rituale e la definiscono inumana. La questione però è difficile da porre in questi termini: in primo luogo il mondo scientificoveterinario è fortemente diviso su questo punto, il che è un ulteriore dimostrazione che non vi sono dati certi capaci di provare quale sia il metodo migliore e soprattutto che la shechità provochi maggiore sofferenza all’animale. Secondo, nell’ambito del concetto di macellazione cosa può essere definito umano? Chi vuole proibire la Shechitah così come la Dhabihah, la macellazione islamica, sostiene che sia necessario lo stordimento preventivo, azione vietata dalla normativa ebraica e, con qualche differenza, da quella islamica. Gli stessi metodi per stordire non sono però esenti da errori: nel caso del proiettile sparato nel cervello, spesso è impreciso e ci vogliono più tentativi perché riesca. E così per gli altri metodi, nessuno può dirsi infallibile.
Dal punto di vista normativo, come sottolinea il professor Stefano Cinotti, membro del Consiglio Superiore di Sanità, la legislazione comunitaria inibirebbe la shechitah ma lascia spazio a possibili deroghe. “In Italia – spiega Cinotti – la nostra Costituzione sancisce la libertà religiosa e in favore di questo principio è stata tutelata la liceità della macellazione rituale”.
Per la normativa italiana, dunque, la Shechitah è permessa; abbiamo visto che non c’è prova scientifica che causi maggiori sofferenze all’animale; allora qual è il punto? La questione gravita, come spiega Eligio Resta, docente di filosofia del diritto all’Università Roma Tre, attorno a quella categoria di diritti che il filosofo tedesco Hans Jonas definiva come diritti senza soggetto. “Parliamo di quelle situazioni giuridiche in cui manca il nesso di reciprocità – spiega Resta – ovvero dove manca il rapporto in cui io ho diritti e tu doveri e viceversa. In questo caso parliamo del diritto degli animali che si esplica nella dignità: il diritto a non essere sottoposti a sofferenze gratuite, non necessarie. Un diritto che implica evidentemente la responsabilità di chi agisce”. Su questa responsabilità è possibile lavorare in campo ebraico? O come si chiede Tobia Zevi dell’Associazione Hans Jonas (che insieme al Collegio Rabbinico Italiano e alla Rassegna Mensile di Israel ha organizzato per il 6 novembre una conferenza sul tema della sofferenza degli animali e della Shechitah), se la scienza dimostrasse di poter per così dire potenziare il metodo della Shechitah sarebbe halakhicamente possibile applicarla? Può esserci un compromesso valido nella tradizione oppure ogni modifica è impossibile?
Ad entrare in gioco e ad intrecciarsi in questo caso sono diversi piani fra cui quello del diritto alla libertà religiosa e il diritto alla dignità degli animali. Su questo punto forse sarebbe utile evidenziare alcune questioni poste alla comunità ebraica internazionale da Grandin Temple, una delle personalità più famose del panorama veterinario mondiale ed esperta in tema di macellazione.
La Temple è intervenuta sul tema della Shechitah su richiesta degli ebrei olandesi, impegnati contro la possibile approvazione di una legge che vuole vietare la macellazione rituale nei Paesi Bassi (o meglio quella senza il prestunning). “Negli ultimi trent’anni – scrive la Temple nell’aprile 2011 – ho lavorato a stretto contatto con l’industria kosher per assicurare che la macellazione religiosa venisse eseguita in modo per quanto possibile umano. La questione dello stordimento, a mio avviso, non è la cosa più importante quando si tratta di assicurare il benessere degli animali prima che vengano macellati. Ma è fondamentale riconoscere che la macellazione kosher richiede più attenzione ai dettagli della procedura di macellazione in cui l’animale è stordito”.
L’esperta del mondo veterinario suggerisce poi delle pratiche che a suo avviso migliorerebbero il benessere degli animali nei macelli kosher, fra cui: eliminare metodi stressanti di contenzione, tenere gli animali calmi prima della macellazione, dal momento che un animale agitato è più difficile da uccidere e impiega più tempo per perdere conoscenza, e addirittura pubblicare il video della macellazione su una pagina web per dimostrare la trasparenza della pratica. Da sottolineare in ogni caso che nella tradizione ebraica il benessere dell’animale e il rispetto della sua dignità comprendono tutte le fasi della vita. Inciso doveroso che lascia spazio a un’altra questione: cosa fanno gli altri? Ma soprattutto, quanto incide il discorso della macellazione kosher sul numero dei capi macellati in ciascun Paese? Prendiamo i Paesi Bassi, in questi mesi protagonisti con la citata campagna anti-macellazione rituale: il totale degli animali macellati è di 500 milioni per anno; la comunità islamica macella 1,5 milioni di capi all’anno; la comunità ebraica pratica la shechitah su 2500 animali all’anno, il che corrisponde allo 0.0005 % del totale dei capi macellati.
Visto e considerato il discorso precedente, sarà proprio il divieto di macellazione rituale a migliorare la situazione dei diritti e della dignità degli animali?

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, novembre 2011