“Ricomporre la Libia, mancano i leader”
Gli scenari della nuova Libia che sta nascendo sulle ceneri di una lunga e sanguinaria dittatura. Paure, passioni e sogni di un paese al bivio della storia. Ne parliamo con Maurice Roumani, docente universitario, esperto di politica internazionale e autore dell’opera monumentale The jews of Lybia recentemente presentata su queste pagine dal professor Enzo Campelli.
Professor Roumani, quale futuro per la Libia del dopo Gheddafi?
È difficile fare previsioni senza correre il rischio di essere smentiti. La Libia è infatti storicamente una realtà complessa di non semplice decodificazione. Una complessità che è soprattutto politico-amministrativa dovuta al frazionamento in tribù che rende arduo il controllo forte e rigoroso di un’entità centrale. La sfida principale è proprio quella di unificare, o quantomeno di far partecipare attivamente a un processo democratico, le varie anime che compongono questo vasto e instabile Paese. Si tratta di un progetto per il quale andrà sicuramente versato molto sudore. Ci sono poi altre situazioni di notevole criticità da non sottovalutare, prima tra tutte la questione degli armamenti. Che fine hanno fatto le armi di distruzioni di massa? Sono state distrutte oppure sono in mano di qualcuno che potrebbe un giorno servirsene? In tutto questo le potenze occidentali devono però muoversi coi piedi di piombo. In simili contesti ci vuole poco a risvegliare accuse di colonialismo e a gettare conseguentemente fango su quanto di buono fatto finora.
La morte di Gheddafi lascia un grande vuoto di potere. Intravede qualche figura politica attorno cui fare perno per catalizzare il consenso delle masse e dar vita a un progetto di riforma democratica condiviso?
No, ed è uno dei nodi più significativi in questo periodo di precarietà e transizione. Purtroppo mancano leader carismatici, amati e stimati dai più, che possano rappresentare un modello cui ispirarsi per contribuire alla rinascita di un paese martoriato. L’orizzonte politico è abbastanza modesto. Servirebbe un re Idris, tanto per citare il sovrano spodestato da Gheddafi. Qualcuno di quella fattura che sappia davvero parlare al cuore della gente spingendola a tirarsi fuori dalle macerie di una guerra civile devastante.
Le immagini trasmesse in questi mesi dalle televisioni raccontano di una rivolta, analogamente a quanto registrato in altri paesi dell’area, in cui i giovani hanno avuto la parte del leone. Quale ruolo per loro nel nuovo assetto libico?
Come in quasi tutti i paesi arabi, anche in Libia i giovani rappresentano la quota maggioritaria della popolazione. La freschezza, la voglia di cambiare il mondo, l’anelito di costruire una società ispirata ai modelli occidentali presente in alcuni di loro, sono fattori che potrebbero risultare decisivi per una Libia più accogliente e meno oscurantista di quanto altri invece vanno paventando. D’altro canto viene però da chiedersi come siano stati finora educati questi ragazzi. Quali valori sono stati loro inculcati nelle scuole del regime? Sapranno accogliere la sfida della democrazia? Anche in questo caso è ancora oggi difficile dare una risposta.
Spesso in queste settimane sulla stampa si è letto di un possibile coinvolgimento di alcune minoranze, tra cui quella ebraica, nel nuovo governo unitario del paese. Ritiene questa una possibilità attendibile?
Credo purtroppo che in questa fase storica i libici abbiano altro a cui pensare. Dobbiamo essere realisti. La Libia è oggi Judenrein, un paese senza ebrei. Non è questo il momento. Lasciamo che escano con le loro forze da questa drammatica situazione. Poi forse un giorno potremo tornare.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, novembre 2011