Qui Torino – Vera e Norma, militanti della memoria

Grande intensità e partecipazione al Caffè Basaglia di Torino in occasione della conferenza Donde Estan? Desaparecidos – La Memoria di Plaza de Mayo che ha avuto come protagoniste Vera Vigevani Jarach, madre di una vittima dei “voli della morte” e Norma Berti, allora ventenne, sopravvissuta al sequestro e a tre anni di prigionia. Due donne che hanno vissuto la tragedia dell’Argentina, due vittime della dittatura militare che ha avuto inizio con il Golpe del generale Rafael Videla il 24 marzo 1976.
Vera Vigevani, nata a Milano nel 1928, dovette lasciare l’Italia, emigrando con la famiglia in Argentina a causa delle leggi razziste. Sposata successivamente con Giorgio Jarach, anch’egli fuggito dall’Italia fascista, ebbe una figlia Franca, sequestrata all’età di 18 anni il 25 giugno 1976, perché ritenuta un possibile oppositore politico. Da allora, insieme alle altre coraggiose ”madri e nonne di Plaza de Mayo” ha animato la battaglia per avere verità e giustizia sugli scomparsi. Viene a conoscenza della terribile verità solo pochi anni fa, grazie alla testimonianza di una donna, Marta Álvarez, che aveva incontrato Franca in un campo di detenzione clandestino dell’ESMA (Escuela Superior de Mecanica de la Armada): poche settimane dopo l’arresto Franca viene barbaramente uccisa. Insieme ad altri, per liberare spazio nel centro di detenzione, viene caricata su uno dei consueti “voli della morte”: dagli aerei, gli ufficiali della marina militare argentina gettavano in mezzo all’oceano o nel Rio de La Plata le persone da eliminare. I prigionieri venivano imbottiti di sedativi prima di venire prelevati e quando venivano fatti salire sull’aereo erano in uno stato di incoscienza.
Perché desaparecidos? Dovevano eliminare i dissidenti, ma senza ripetere gli “errori” compiuti da Pinochet nel Cile del 1973: una repressione troppo “visibile”. L’Argentina andava “ripulita”: «Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi.» (Jorge Rafael Videla). Il risultato fu un’intera generazione cancellata da un terrorismo di Stato che in sette anni si portò via nel nulla dalle 10 alle 30 mila persone.
La riflessione di Vera parte a ritroso e parla di due recenti vittorie: il fondamentale processo svoltosi pochi giorni fa in Argentina che si è concluso con le sentenze di ergastolo per molti carnefici dell’ESMA e la vittoria elettorale di Cristina Fernández de Kirchner, dal 2007 presidente d’Argentina. La speranza è che, finalmente, questo governo possa portare avanti gli ideali dei loro figli.
Ciò che colpisce di più è la forza con cui Vera ancora oggi racconta, come se fosse la prima volta, il suo dramma. Lo fa con una freschezza che si potrebbe quasi dire “infantile”, che prende l’ascoltatore e lo inchioda alla sedia: continua a lottare per la creazione di una memoria, affinché nessuno mai dimentichi. Il suo obiettivo è far sì che il ricordo diventi un’arma di battaglia per il presente, e che tutte quelle vite spezzate non siano state inutili.
Racconta del terribile e grande silenzio che ha paralizzato l’Argentina durante la dittatura. Da questo baratro si è potuti uscire grazie a diverse forme di resistenza: la nascita del movimento delle Madres de Plaza de Mayo. “Il movimento – dice Vera- è nato tra terrore e dolore, avevamo paura, ma l’unico modo per superarla era non immobilizzarsi, agire”. Altra forma fu il teatro argentino che, mosso dalla volontà di denuncia, ha rotto il silenzio, costituendo così il primo passo in avanti dell’intera società.
Norma Berti aveva 21 anni nel 1976, quando fu sequestrata e condotta in un centro clandestino di detenzione dove vennero inghiottite più di 2500 persone. Da lì fu trasferita al penitenziario di Cordoba e poi al carcere di Villa Devoto a Buenos Aires. Fu messa in libertà alla fine del 1979 dopo tre anni di prigionia e fu successivamente costretta a emigrare in Italia in seguito a minacce. Ciò che l’affligge di più, oltre al senso di colpa per essere una dei pochissimi sopravvissuti, è il senso di sconfitta che Norma definisce “totale, schiacciante”, il fallimento di ideali e di un’esperienza di militanza politica molto forte.
“Quando ero in carcere non ero sola, ero con le altre compagne dove campeggiava la parola resistenza, anche davanti alle richieste del nemico: non accettavamo la perquisizione corporale e non firmavamo atti di pentimento. Non volevamo pronunciare la parola sconfitta, c’è voluto molto tempo per interiorizzarla”.
Si sofferma sul termine genocidio, forse non così appropriato per definire ciò che è accaduto in quegli anni in Argentina: non erano in ballo motivi di odio razziale, etnico o religioso. È stata colpita un’intera generazione per motivi politici, forse il termine corretto sarebbe “politicidio”.
“Presenti ora e sempre”: questo è il compito dei testimoni. “La testimonianza – conclude Vera – di per sé ha dei limiti, avrà sempre delle lacune e non sarà mai del tutto oggettiva, tuttavia è fondamentale perché noi siamo testimoni diretti”. Solo grazie alla conoscenza del passato si possono riconoscere nel domani i “sintomi”, nella speranza questa volta di prevenire.

Alice Fubini