Lavorare per la pace
E’ una di quelle notizie che la stampa italiana non valorizza, e che quindi pubblico e intellettuali ignorano; ma su cui merita di riflettere. Un paio di settimane fa l’organizzazione armata dei nazionalisti baschi ETA ha annunciato la decisione “irrevocabile” di rinunciare alla lotta armata. Lo stesso è accaduto qualche anno fa, in una forma più contrattata, per i terroristi nordirlandesi dell’Ira, ancora prima e per via prevalentemente diplomatica con quelli altoatesini. Non hanno rinunciato, ma sono stati più o meno sconfitti: i ceceni in lotta con i russi, i sarahui con il Marocco, i tibetani con i cinesi, i corsi coi francesi. Senza entrare nel merito di tutti questi casi di lotta di “liberazione nazionale” (non di guerra civile politica) la sconfitta è stata dovuta alla mancanza di appoggio internazionale. Giusta o sbagliata che fosse la loro causa, tutte queste guerriglie nazionali non sono riuscite a essere riconosciute dalla comunità internazionale, con la conseguenza di obbligare l’antagonista a venire a patti. Vive ancora, ma con grandi difficoltà, la guerriglia curda, perché è distribuita su tre o quattro paesi, e perché forse la metà della cosiddetta nazione turca ha radici etniche curde, il che assicura agli indipendentisti una base fortissima.
In mezzo a tutte queste “lotte di liberazione nazionale” e alle altre che si potrebbero citare (Kossovo, Darfur, Nigeria ecc.) il caso palestinese è certamente unico. L’appoggio internazionale ha dato alle organizzazioni che erano cresciute praticando il terrorismo (e ancora onorano quegli atti e non hanno per nulla rinunciato a rinnovarli) la dignità di un quasi Stato, un'”Autorità”, incoraggiando con forza e cioè in sostanza obbligando Israele a venire a patti con essa e ora cercano con tutto il peso della loro influenza a trasformare ulteriormente questa situazione, puntando ad attribuire alle organizzazioni palestinesi una dimensione statuale, senza che essa sia più neppure il frutto di un accordo con Israele. Se avessero agito alla stessa maniera altrove, non vi sarebbero stati indipendenti in Nord Irlanda e nei Paesi baschi, in Tibet e in Kurdistan, ma essi sarebbero in guerra coi loro vicini perché resterebbero in piedi le loro rivendicazioni massime. Con la differenza che nel caso palestinese queste rivendicazioni massime non rinunciate, com’è scritto negli statuti di Hamas e Al Fatah, comportano la distruzione dello Stato di Israele. Come se i ceceni volessero tutta la Russia, o i tibetani il confine fino alla Mongolia, con l’espulsione o peggio di coloro che non sono della loro etnia.
Tutto questo è stato fatto in nome della pace. Ma in realtà gli appoggi ai palestinesi non vanno in direzione della pace, ma del prolungamento della guerra. Dato che sono gli arabi ad avere rivendicazioni su territori controllati da Israele – come obiettivo finale su tutti i territori che costituiscono Israele -, e non viceversa, ci sono solo due esiti finali per la guerra: la distruzione dello Stato di Israele, con un mezzo o con l’altro; oppure la rinuncia dei palestinesi alle loro illusioni, la fine della loro “lotta”, l’ammissione dell’impossibilità dei loro obiettivi finali. Scartata la prima soluzione, la seconda è possibile solo con un’Israele indubitabilmente più forte dei suoi nemici (che non sono solo i palestinesi, ma tutti coloro che sono in guerra con Israele, Stati come la Siria e l’Iran, movimenti come Al Qaeda e i Fratelli Musulmani, la grande ondata islamista che percorre mezzo mondo).
Ogni accordo intermedio, ogni riconoscimento, ogni ritiro li porta di fatto più vicini al loro obiettivo finale, dà loro l’impressione di essere più forti e che il loro nemico sia più debole, li incoraggia in sostanza a continuare. Chiunque, fra le nazioni del mondo, gli intellettuali e i giornalisti e anche dentro il mondo ebraico, crede magari in buona fede di “lavorare per la pace” aiutando “il più debole” con flottiglie e manifestazioni e voti nelle istituzioni internazionali e pressioni diplomatiche e opinioni, in realtà sta prolungando la guerra e aumentando le sofferenze di entrambe le parti.
Ugo Volli