Yitzhak Rabin, un ricordo

Credo che sia opportuno e quasi doveroso ricordare l’assassinio di Yitzhak Rabin, di cui corre in questi giorni il sedicesimo anniversario. Mi ricordo l’estate e l’autunno del 1995 come un periodo ricco di emozioni in Israele, un periodo intenso, nel quale il dibattito politico sui rapporti d’Israele con i palestinesi aveva raggiunto toni estremi a tutti i livelli, non si parlava d’altro. Era un periodo di intensi colloqui con la leadership palestinese guidata da Arafat, si era riusciti a stabilire a fatica in entrambi i campi un clima di fiducia crescente, clima che stava cominciando a dare i suoi frutti: non solo si andava stabilendo una collaborazione efficiente fra Tzahal e le forze dell’ordine palestinesi, sì che furono sventati ed evitati molti atti terroristici di Hamas, ma si parlava già di collaborazione economica e tecnologica e di progetti che avrebbero migliorato di diversi ordini di grandezza le infrastrutture nei territori abitati dai palestinesi con il conseguente miglioramento del loro livello di vita. C’era un’atmosfera di ottimismo dilagante, si sapeva che tutto questo avrebbe portato a lunga scadenza un periodo di maggior tranquillità per tutti.
Tre anni prima questa maggioranza ottimista e fiduciosa aveva votato per Yitzhak Rabin. Ma in quello stesso periodo, ogni volta che si assisteva a un passo in avanti nei rapporti con i palestinesi, i nemici della pace si adoperavano alacremente per riportare le cose indietro e Hamas faceva saltare in aria un autobus o una pizzeria, gli attentati terroristici erano sempre più gravi quanto più sembrava avvicinarsi un accordo con Arafat. Conviene qui ricordare che in quel periodo Arafat era in netto contrasto con Hamas e non era ancora il mandante degli attentati della seconda Intifada, che ebbe inizio più tardi nel 2000 in seguito al fallimento dell’incontro di Camp David con l’allora primo ministro Barak. In quell’estate autunno del 1995 c’erano anche in campo israeliano molti che non volevano saperne di accordi di pace con i palestinesi, perché sapevano benissimo che tali accordi avrebbero inevitabilmente portato alla spartizione del territorio. In quel periodo si infittirono le manifestazioni della destra nelle quali Rabin veniva raffigurato con i baffetti e la svastica, mentre si moltiplicavano i decreti di alcuni rabbini, esponenti dell’estrema destra, che dichiaravano traditori Rabin e i suoi ministri, in un’opera capillare di delegittimazione del governo che era stato eletto democraticamente. E dal momento che la pena adatta al traditore è la pena di morte, era solo questione di tempo finché saltasse fuori una persona che prendesse in mano l’iniziativa di risolvere la cosa. E così venne la sera del cinque novembre. Quella sera faditica si ebbe la dimostrazione che “gli estremi si toccano” … e si aiutano, e che Hamas e gli ambienti che hanno cresciuto ed educato Igal Amir sono alleati.
Nei giorni successivi Israele sembrava in uno stato traumatico di trance, per le strade e nei posti di lavoro c’era un silenzio pesante, un’aria di rabbia e di frustrazione, e di rassegnazione. Quei tre colpi di pistola avevano ammazzato le speranze che si andavano facendo strada nel cuore di molti, sicuramente della maggioranza, nonostante gli attentati tremendi e la violenza verbale di chi cercava ad ogni costo di silurare gli sforzi di pace e di cambiare con la forza il corso della storia. Io avevo la netta sensazione che mi stesse venendo meno il terreno sotto i piedi. Quella sera nella piazza del Municipio a Tel Aviv (chiamata poi Piazza Rabin) c’erano centomila persone, ma altri milioni erano nelle case in tutta Israele e seguivano con entusiasmo quei canti di speranza che salivano dal podio. Ma nonostante ciò la violenza e la sopraffazione avevano vinto, e la maggioranza degli israeliani, che fino allora aveva creduto nella democrazia e nei suoi metodi, si sentì dare un pugno nello stomaco.
L’assassinio di Rabin, Primo ministro di un governo eletto democraticamente, fu un evento traumatico, una vera rivoluzione nella ancora breve storia dello stato d’Israele, una crisi che sta gettando ancora ombre pesanti nel rapporto fra cittadini e classe di governo israeliana.
Oggi alcuni degli esponenti d’opposizione di allora (Netanyahu, Sharon e altri) che assistevano e incitavano la folla in quelle manifestazioni violente, nelle quali si chiedeva la testa di Rabin, sono oggi al governo, e il processo di pace è bloccato per volontà di entrambe le parti. Ma Israele ha bisogno urgente di un leader dotato di un passato simile a quello di Rabin (l’architetto della vittoria del ’67) e di una visione del futuro simile alla sua. Possibile che non ci sia? Se c’è, che si faccia avanti, Israele lo aspetta.

Daniel Haviv, alchimista