…pregiudizio
Sul Corriere della Sera di ieri, Sergio Romano spiegava al lettore Alessandro Prosperi perché i palestinesi nelle carceri israeliane (compresi gli autori delle più efferate stragi terroristiche) si debbano definire prigionieri di guerra. Romano parla di “quanto è accaduto nella regione durante i 130 anni trascorsi dai primi insediamenti sionisti”, ignorando che fin dall’antichità la continuità della presenza ebraica sul territorio non è mai cessata, e dunque distinguendo eticamente fra ebrei (forse buoni) e sionisti (certo cattivi). Poi Romano, suggerendo un’altra distinzione etica, dice che “il popolo A ha costruito il suo stato su una parte della regione, occupa l’altra parte, e dispone di un esercito, di un arsenale moderno, e di un territorio in cui può preparare le sue operazioni”; mentre “il popolo B vuole invece la fine dell’occupazione, reclama l’indipendenza, e ricorre alle armi che sono state usate da tutti i movimenti di resistenza e di liberazione”. Romano certo sa bene che nel novembre 1947, quando l’Assemblea generale dell’ONU approvò a grande maggioranza il piano di spartizione della Palestina, il popolo A e il popolo B si trovavano esattamente nella stessa posizione: non esisteva uno Stato, ma solamente due movimenti di liberazione nazionale contrapposti. Di fronte alla soluzione di compromesso proposta dall’ONU, “il popolo A” l’accettò, sia pure a malincuore, e “il popolo B” la rifiutò. Rilegga Romano le assai istruttive dichiarazioni di voto del 1947 dei rappresentanti delle due parti di fronte all’assemblea dell’ONU, e vi troverà raffigurati fedelmente gli estremi odierni del conflitto. Il popolo A, dunque, si erige a Stato, ma il popolo B rifiuta di erigersi a Stato e invece cerca con tutti i mezzi possibili di impedire l’esistenza dello Stato (e forse anche del popolo) A. La preoccupazione per la corretta definizione dei palestinesi nelle carceri israeliane passa in secondo piano se la storiografia non è generalmente equilibrata, è poco documentata, ed è infiltrata da pregiudizio.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme