Dalla parte delle donne

Non è un segreto che i riformati cerchino di cavalcare il disagio che le donne avvertono negli ultimi anni. Nel loro spirito illuministico, nella loro euforia riformatrice, credono e fanno credere che si tratti di cambiare qui e là i testi, modificare mitzvòt, introdurre magari un nuovo minhag, per risolvere la «questione femminile».
Anzitutto: che formula infelice e insieme sintomatica! Chi ha detto che c’è una questione femminile? E che non ci sia invece una questione maschile? Con le dovute distinzione la formula fa il paio con un’altra: la «questione ebraica». E come ha detto Hannah Arendt: «la moderna questione ebraica nasce nell’Illuminismo; è l’Illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l’ha posta». In modo analogo si potrebbe dire che sia la concezione illuministica di alcuni uomini, improntata a un vuoto egualitarismo, a porre la «questione femminile». Come se, in una supposta evoluzione, le donne si emancipassero facendo quello che fanno gli uomini, occupando gli stessi spazi, svolgendo gli stessi ruoli.
Non è così. Si confondono in questo modo emancipazione e liberazione; chi conosce il pensiero femminista sa tenerle distinte. Una donna può essere emancipata, può guidare un autobus per le vie trafficate, può essere magistrato e condannare i capimafia, può fare il professore all’università, insegnare a scuola; ma non necessariamente sarà una donna liberata, consapevole cioè, non solo della propria dignità, ma anche della differenza del suo modo di essere, di pensare, di parlare, di agire. Al punto da chiedersi: chi vuole essere come gli uomini? Forse la cosiddetta evoluzione dovrebbe percorrere un cammino opposto: non sono le donne a doversi avvicinare agli uomini, bensì gli uomini a voler scoprire e apprezzare l’universo delle donne.
Perché mai pregare, ad esempio, sedute accanto agli uomini sarebbe preferibile? In che cosa ne verrebbe aumentata l’autostima? E se invece stare accanto ad altre donne non significasse assaporare qualche ora di suggestiva intimità? Stare tra le donne non equivale ad essere relegate o emarginate. Vuol dire semmai vedere la realtà dalla prospettiva opposta a quella maschile, che non è l’unica.
Fuori dall’alternativa tra protagoniste e comparse, quello che le donne desiderano è di poter partecipare, cioè essere coinvolte e coinvolgere a loro volta. Anzitutto nello studio. Senza perdere tuttavia la propria angolazione, senza abbandonare il proprio posto. La tradizione ebraica, che insegna la differenza delle donne, è perciò in questo senso una enorme risorsa. D’altronde negli Stati Uniti, in Israele, ma anche in molti paesi europei, le comunità che si definiscono «modern orthodox» chiedono alle donne un’intensa partecipazione.
Questo dovrebbe valere anche in Italia dove grande è il disorientamento nel mondo femminile. Se è facile condannare il burqa e l’esclusione delle donne nel mondo islamico, ben più difficile è denunciare il modo in cui le donne sono state trattate nell’era berlusconiana. Si vorrebbe parlare al passato, perché è dolorosa ancora la ferita. Fa vergogna pensare ai modelli femminili imposti in questi ultimi anni: pantaloni e scolature ammiccanti, pezzi di corpo maschilmente impiegati per le voglie maschili, in vista di un fantomatico potere. Tra la sfacciataggine del senza-faccia e il burqa, c’è una bellezza femminile che è stata sommersa, che deve essere riscoperta.
Che dei suggerimenti non vengano proprio dal mondo ebraico? Lo speriamo. D’altronde, in tante comunità, le donne hanno dimostrato di avere idee, iniziative e desiderio di impegnarsi. Ma l’impegno non dovrebbe ricadere nell’economia di scambio né attendere necessariamente la ricompensa. Tanto meno quella di un ruolo istituzionale. In tal senso non posso concordare con le scelte della mia amica Eveline Goodman-Thau, pur comprendendole all’interno della sua biografia. Non è necessario essere «rabbine» per insegnare, per imparare, per essere un punto di riferimento in una comunità.

Donatella Di Cesare, filosofa