La questione femminile – Opinioni a confronto

Si moltiplicano gli interventi di collaboratori e lettori riguardo alle diverse interpretazioni sulla posizione della donna nell’ambito della tradizione ebraica. In questo spazio alcuni dei contributi che sono pervenuti.

La presentazione del libro di rav Haim Cipriani sulla questione femminile nella legge ebraica (“Ascolta la sua vice”, Giuntina, 2011) svoltasi giovedì scorso a Milano, su cui ha riferito già in questo sito Guido Vitale l’altro giorno, è particolarmente significativa, non solo per l’incontro, teso ma sereno, di posizioni ebraiche molto diverse che si sono parlate in pubblico per la prima volta in Italia: un grande segno di maturità. Ma anche perché la questione femminile è al centro dell’evoluzione civile ed etica del nostro tempo. Quando per esempio, criticando l’integralismo islamico parliamo del velo obbligatorio, dei matrimoni cui sono costrette le bambine, del diritto negato in certi paesi a svolgere attività molto basilari come guidare la macchina o a vestirsi liberamente, non cerchiamo solo argomenti polemici evidenti; ma sottintendiamo il fatto essenziale che la libertà femminile è la vera pietra di paragone della modernità e della sua superiorità morale su quei sistemi politici e religiosi che negano autodeterminazione e piena dignità umana a metà dell’umanità.
L’ebraismo dalle origini è stato molto più avanzato di altre culture su questo punto. Il diritto delle donne ad accettare o rifiutare liberamente il loro matrimonio (dunque a non essere meri oggetti sessuali) è stato fondato sull’episodio della scelta di Rifkà che abbiamo letto nella porzione di Torah di ieri; i loro diritti economici sono riconosciuti almeno in parte nell’episodio delle figlie di Zelofcad (Bemidbar 27); vi sono nel Tanach qua e là profetesse, comandanti militari, donne che prendono iniziative politiche e spirituali, decidendo della loro vita e del futuro dell’ebraismo: Miriam e Ruth, Deborah e Rifkà e tante altre. Sono piccoli segnali, ma decisivi, rispetto all’universo quasi esclusivamente maschile delle storie greche, egizie, romane. Vi sono dunque nella nostra tradizione gli spazi per riconoscere anche concretamente la libertà femminile ed essi sono stati esaltati subito appena il nostro popolo ha avuto il suo Stato. Che Golda Meir (insieme alla cingalese Bandaranaike) sia stata la prima donna capo di governo al mondo, che oggi in Israele siano donne il capo dell’opposizione e il presidente della Corte Suprema, senza che questo susciti alcuna speciale emozione, non è affatto un caso. Sono rari i paesi occidentali in cui qualcosa del genere è accaduto (Germania, Gran Bretagna).
Ciò non toglie che vi siano filoni dell’ebraismo – le tendenze cosiddette ultraortodosse – che ancora discriminano palesemente la posizione femminile, tanto sul piano simbolico che su quello pratico, esprimendo un evidente bisogno di nascondere la presenza delle donne nella sfera sociale e il loro corpo; magari giustificando tali discriminazioni con argomenti analoghi a quelli degli islamisti: che non si tratterebbe di discriminazione ma di esaltazione e riconoscimento di superiore spiritualità, che proprio per questa ragione esse non avrebbero bisogno di “scimmiottare gli uomini” mella pratica religiosa; che le donne chiuse in casa e obbligatoriamente coperte sarebbero “protette” e non recluse ecc. Dato che l’ebraismo è di fatto plurale, queste posizioni convivono con altre assai meno radicali o del tutto liberali.
Ma se è vero quel che affermavo prima, cioè che la cifra specifica e la conquista etica della modernità è la libertà femminile e la parità dei diritti, si pone all’ebraismo oggi il problema dell’assorbimento delle straordinarie energie che la liberazione delle donne ha suscitato e della sua espressione simbolica, cioè rituale. Prenderne atto e discuterne è un segno importante di quella capacità di reagire alla sfida del contesto sociale, accogliendone gli stimoli positivi ma conservano la propria identità, che è stato fra i segreti della capacità del nostro popolo e della nostra religione di restare vitale e di arricchirsi per millenni, pur nell’esilio e fra le persecuzioni.

Ugo Volli

Non è un segreto che i riformati cerchino di cavalcare il disagio che le donne avvertono negli ultimi anni. Nel loro spirito illuministico, nella loro euforia riformatrice, credono e fanno credere che si tratti di cambiare qui e là i testi, modificare mitzvòt, introdurre magari un nuovo minhag, per risolvere la «questione femminile».
Anzitutto: che formula infelice e insieme sintomatica! Chi ha detto che c’è una questione femminile? E che non ci sia invece una questione maschile? Con le dovute distinzione la formula fa il paio con un’altra: la «questione ebraica». E come ha detto Hannah Arendt: «la moderna questione ebraica nasce nell’Illuminismo; è l’Illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l’ha posta». In modo analogo si potrebbe dire che sia la concezione illuministica di alcuni uomini, improntata a un vuoto egualitarismo, a porre la «questione femminile». Come se, in una supposta evoluzione, le donne si emancipassero facendo quello che fanno gli uomini, occupando gli stessi spazi, svolgendo gli stessi ruoli.
Non è così. Si confondono in questo modo emancipazione e liberazione; chi conosce il pensiero femminista sa tenerle distinte. Una donna può essere emancipata, può guidare un autobus per le vie trafficate, può essere magistrato e condannare i capimafia, può fare il professore all’università, insegnare a scuola; ma non necessariamente sarà una donna liberata, consapevole cioè, non solo della propria dignità, ma anche della differenza del suo modo di essere, di pensare, di parlare, di agire. Al punto da chiedersi: chi vuole essere come gli uomini? Forse la cosiddetta evoluzione dovrebbe percorrere un cammino opposto: non sono le donne a doversi avvicinare agli uomini, bensì gli uomini a voler scoprire e apprezzare l’universo delle donne.
Perché mai pregare, ad esempio, sedute accanto agli uomini sarebbe preferibile? In che cosa ne verrebbe aumentata l’autostima? E se invece stare accanto ad altre donne non significasse assaporare qualche ora di suggestiva intimità? Stare tra le donne non equivale ad essere relegate o emarginate. Vuol dire semmai vedere la realtà dalla prospettiva opposta a quella maschile, che non è l’unica.
Fuori dall’alternativa tra protagoniste e comparse, quello che le donne desiderano è di poter partecipare, cioè essere coinvolte e coinvolgere a loro volta. Anzitutto nello studio. Senza perdere tuttavia la propria angolazione, senza abbandonare il proprio posto. La tradizione ebraica, che insegna la differenza delle donne, è perciò in questo senso una enorme risorsa. D’altronde negli Stati Uniti, in Israele, ma anche in molti paesi europei, le comunità che si definiscono «modern orthodox» chiedono alle donne un’intensa partecipazione.
Questo dovrebbe valere anche in Italia dove grande è il disorientamento nel mondo femminile. Se è facile condannare il burka e l’esclusione delle donne nel mondo islamico, ben più difficile è denunciare il modo in cui le donne sono state trattate nell’era berlusconiana. Si vorrebbe parlare al passato, perché è dolorosa ancora la ferita. Fa vergogna pensare ai modelli femminili imposti in questi ultimi anni: pantaloni e scolature ammiccanti, pezzi di corpo maschilmente impiegati per le voglie maschili, in vista di un fantomatico potere. Tra la sfacciataggine del senza-faccia e il burka, c’è una bellezza femminile che è stata sommersa, che deve essere riscoperta.
Che dei suggerimenti non vengano proprio dal mondo ebraico? Lo speriamo. D’altronde, in tante comunità, le donne hanno dimostrato di avere idee, iniziative e desiderio di impegnarsi. Ma l’impegno non dovrebbe ricadere nell’economia di scambio né attendere necessariamente la ricompensa. Tanto meno quella di un ruolo istituzionale. In tal senso non posso concordare con le scelte della mia amica Eveline Goodman-Thau, pur comprendendole all’interno della sua biografia. Non è necessario essere «rabbine» per insegnare, per imparare, per essere un punto di riferimento in una comunità.

Donatella Di Cesare, filosofa

Vorrei offrire un commento sull’esternazione di Donatella Di Cesare su donne, riformati, femminilità e modelli di consumo. Non desidero entrare nel merito di una questione che mi sembra più di “credo” che di pensiero e pertanto completamente personale. Piuttosto vorrei chiedere alla signora Di Cesare a cosa si riferisce quando parla di “disagio femminile”, “ultimi anni”, o “euforia riformatrice”. Che gli esseri umani si siano rapportati alle strutture sociali di genere con livelli diversi di acquiescenza e complessità non è una novità degli ultimi anni. Di figure femminili che mettono in discussione l’autorità (maschile e non) sono piene la letteratura biblica e la storia con risultati di cui probabilmente la “she-rabbi” newyorkese non è uno dei più originali. In secondo luogo, il movimento riformato ha più o meno 180 anni e di euforia direi che ne ha ben poca avendo ormai in gran parte esaurito quello che aveva da dire non solo sulle donne ma anche sugli uomini.
Mi scuso fin d’ora se sbaglio ma il lanciare l’allarme del disorientamento non appena si mette in discussione lo status quo, catalogare le donne in oppresse e puttane all’unico scopo di offrire la via della salvezza è un argomento classico della letteratura agiografica femminile cristiana. Usarlo all’interno di un dibattito, che – piaccia o no alla signora Di Cesare – esiste e va rispettato come tale, è un modo condiscendente di sottrarsi ad un lavoro intellettuale che è interessante sia per gli uomini che per le donne, specialmente in un campo, quello del rapporto tra rito, ruolo e diritto, in cui abbiamo il lusso di non dover sottostare ai moralismi della politica.
Se proprio vogliamo usare la logica dell’esempio, bisogna che gli esempi addotti siano presentati nella loro precisa collocazione storica e non come massimi sistemi. Proporre alle donne italiane il modello americano “modern orthodox” vale tanto quanto proporre quello riformato. Sono prodotti di culture molto diverse da quella italiana, possono benissimo ispirare un dibattito purché ne venga compresa o quanto meno discussa la realtà di origine. Quello che da lontano può sembrare un coinvolgimento della donna “modern orthodox”, da vicino ha piuttosto l’aspetto di una brillante trovata di marketing che colloca la donna ad un incrocio strategico del mondo del consumo conferendole un piccolo potere controllato e un tocco di “sexy look” per trasformarla in guardia di se stessa. Una ricetta d’oltre-oceano il cui successo non inizia né finisce nel mondo ebraico.
E’ chiaro che non è possibile generalizzare nessuna di queste valutazioni perché per fortuna ognuno di noi è una persona a sé e le forme sociali ci condizionano in misure diverse. Sarebbe però auspicabile affrontare ogni dibattito senza sussumerlo a priori alle nostre convinzioni e usando per quanto possibile tutti gli strumenti critici e intellettuali che abbiamo a disposizione.

Natalia Indrimi, Centro Primo Levi – New York