titoli…

La Gialappa’s band ha chiesto pubblicamente scusa per aver usato la parola “rabbino” come sinonimo di “tirchio”. Un uso evidentemente improprio e offensivo. Ma in altra forma, forse non offensiva, ma certamente impropria e perlomeno equivoca, si fa ampio uso anche da noi della parola rabbino. Dovrebbe essere chiaro che questo titolo compete a chi ha svolto un determinato percorso di studi e che si comporta coerentemente. Esistono tante scuole e tante regole, dentro e fuori dell’ortodossia, per cui dire rabbino spesso non basta. Tanto più nel nostro sistema, dove l’Unione delle Comunità ha il compito istituzionale di gestire le scuole di formazione rabbinica, di controllarne i titoli (che non vengono regalati) ed esercitare la vigilanza sull’attività dei rabbini. Eppure accade che persone che non potrebbero in alcun modo essere accettate seconde le regole condivise vengano presentati come “rabbini” dagli stessi organi di informazione dell’Unione (come questa testata) o delle Comunità. Insomma chi dovrebbe controllare non controlla e l’informazione è equivoca. Quando si parla di un “rav” riformista dovrebbe essere chiaro al lettore che è riformista; quando si parla di una “rabbinessa ortodossa” (in Mosaico, sito ufficiale della Comunità di Milano) o si dice di lei che “è una delle rarissime donne al mondo ad aver ottenuto da autorità rabbiniche ortodosse un’ordinazione al femminile” (Ucei informa) l’informazione è parziale e fuorviante perché non chiarisce chi sarebbero queste presunte autorità ortodosse e perché omette la circostanza che questa autorevole professoressa ha esercitato il suo “rabbinato” in una comunità liberal. E’ chiaro che su questi temi c’è discussione e dissenso, ma finché le regole ci sono, bisogna rispettarle.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma