La stampa ebraica fra tradizione e futuro

La stampa ebraica in Europa, un intrigante percorso di parole e pensieri che fanno dibattito, un microcosmo vivace che guarda alla ricchezza della sua plurimillenaria tradizione ma che è allo stesso tempo attento alla contemporaneità e proiettato alla sfida del domani senza dimenticare il prezioso ausilio delle moderne tecnologie. Si snoderà lungo questo tema il convegno “Dalle rotative all’Ipad: tradizione e futuro nella stampa ebraica” in programma domenica pomeriggio a partire dalle 15 al Centro Bibliografico UCEI di Roma. Tra gli ospiti chiamati a portare un contributo, una rappresentanza delle testate nazionali e comunitarie dell’ebraismo italiano oltre che del mondo culturale, accademico e istituzionale e la saggista polacca Bella Szwarcman-Czarnota di cui pubblichiamo, nella versione italiana a cura di Laura Mincer, un recente scritto apparso a Varsavia sulla rivista Midrasz.

“Ecco i nomi dei figli di Israele…”. “Se stai per scegliere il nome del tuo bambino devi decidere fra molti fattori importanti. Il nome del bambino deve essere anzitutto armonico con la sua data di nascita, e con il cognome di famiglia. La cosa più importante è che comprenda le qualità legate al tuo cognome. Telefonici prima di decidere, oppure clicca qui”. Così ci informa info@kabalarians. com. Si può anche telefonare a un numero di Vancouver.
Non so quale “fattore” si colleghi al nome Psachia, portato con orgoglio del padre della poetessa Anna Frajlich, che ne scrive nel racconto Il nome del padre. Per una buffa coincidenza questo nome mi era noto fin dall’infanzia. “Psachie fun Regensburg” era un eroe le cui prodigiose avventure amavo ascoltare da bambina. Solo molto più tardi venni a sapere che Psachie fun Regensburg non è altro che la pronuncia yiddish di Petachia di Ratisbona, e che non si trattava affatto di una figura mitica, ma di un viaggiatore medievale. Le sue peregrinazioni vennero descritte nel libro Sibuv, pubblicato a Praga nel XVI secolo, e quindi tradotte in numerose lingue.
Petachia di Ratisbona veniva da una famiglia di illustri tosafisti (commentatori); invece di star chinato sui libri come i suoi antenati decise di mettersi in viaggio. Il suo cammino lo condusse dalla Polonia in Russia, in Crimea, nella terra dei Chazari, in Armenia, in Kurdistan, a Babilonia, in Siria, fino alla terra d’Israele. Sembra che il suo scopo principale fosse appunto poter giungere in pellegrinaggio in Eretz Israel e pregare sulle tombe dei santi rabbini. Lungo la strada però gli capitò di imbattersi in svariate figure interessanti e in molti fatti stravaganti, che descrisse in maniera dettagliata. In Eretz Israel Petachia fece delle scoperte meravigliose; più di tutto lo stupì il pozzo che, completamente secco di sabato, gli altri giorni era colmo d’acqua. Lungo la strada pare si imbattesse anche nell’albero sotto cui riposarono i tre angeli diretti verso la tenda di Abramo. Questa pianta aveva la peculiarità di gettare la sua ombra sugli uomini pii, ma, se vi cercavano riparo dall’arsura gli idolatri, le sue fronde si alzavano e non davano ombra (Bereshit Rabbà 517- 518). Avvenne “nel caldo del giorno”. Abramo sedeva “all’ingresso della sua tenda […]. Alzati gli occhi, guardò ed ecco, tre uomini erano in piedi davanti a lui. Appena li ebbe veduti, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò a terra”. (Genesi 18; 1-2). Abramo accolse generosamente i viaggiatori e ne venne premiato: Sara gli diede un figlio, Isacco. Anche Lot, il cugino di Abramo, si mostrò ospitale nei confronti degli angeli (stavolta erano due), e mise persino in pericolo la sua famiglia per assicurar loro un soggiorno tranquillo sotto al suo tetto. Ma il comportamento di Lot non venne altrettanto ricompensato. Perché? Il grande zaddik Levi Itskhok di Berdyczew così lo spiegava ai fedeli che venivano da lui a farsi benedire: “Sapete in cosa consiste la differenza fra il padre nostro Abramo, pace all’anima sua, e Lot? Perché amiamo tanto rammentare che Abramo offrì agli angeli focacce, giuncata e un vitello tenero e buono? Anche Lot fece preparare focacce e imbandì la tavola. Ma perché consideriamo un merito solamente l’ospitalità di Abramo? Anche Lot fu altrettanto ospitale. La questione si può spiegare nel modo seguente: nel caso di Lot si dice che ‘Due angeli arrivarono a Sodoma’ [Genesi 19;1]; ma Abramo vide tre uomini. Lot vide gli angeli, Abramo dei viandanti esausti, desiderosi di riposo e di cibo” (ce lo racconta Buber nelle storie dei chassidim).
Lo Zohar riferisce che Abramo era in grado di riconoscere il tipo di persona con cui aveva a che fare dalla reazione dell’albero sotto cui sedeva; se si accorgeva che sotto l’albero sedeva un pagano cominciava gli si avvicinava dicendo che “non si sarebbe allontanato finché non avesse riconosciuto il Santo, benedetto Egli sia”.
Non ci deve stupire dunque che Abramo venga definito nostro padre (Giosuè 24; 3), progenitore, patriarca, mentre di Lot si dice solamente che “camminava insieme ad Abramo”. Il nome Abraham (Padre di molti popoli) venne attribuito ad Abramo dall’Eterno quando strinse con lui il patto. La promessa della terra e il patto con Dio sono i motivi per cui Abraham- Abramo è veramente il padre del popolo ebraico. Il suo nome è una sorta di simbolo dell’ebraismo.
Per me Abram era al tempo stesso il certificato di nascita e una sorta di scudo. In tempi ormai abbastanza remoti, quando alla gente cosiddetta per bene non sembrava fine far sfoggio di antisemitismo, il nome di mio padre tappava la bocca a molti amanti delle barzellette “ebraiche”. “Come si chiama tuo padre?”. “Abram”. Un’occhiata veloce, a volte imbarazzata, e tutto rientrava nella norma.
Ma c’era anche chi trovava questo nome chiaramente irritante. Dalla più remota infanzia ricordo le visite di tetri funzionari comunisti che cercavano di convincere mio padre a cambiar il nome, se non addirittura il cognome. “La preghiamo di riflettere. Questa modifica Le risparmierà molti problemi, specialmente nel posto di lavoro”. “E cosa mi proponete?”, chiedeva mio padre. I signori forse non avvertivano lo scherno nella sua voce, che pure era percepibile persino da una bambina quale io ero. “Forse Adam Czarnecki?” (nel cognome Szwarcman così come in Czarnecki la radice è la parola “nero”). “Forse un cognome nobiliare come Czarnecki neanche me lo merito, e anche Adam un nome biblico”.
Citare la Bibbia ai tempi non andava di moda, i signori infine gettarono il guanto e scomparvero dalla nostra vita. D’altronde più tempo passava dal periodo in cui erano in molti gli uomini che in Polonia portavano il nome di Abram, e tanto più spesso capitava che esso suscitasse esclusivamente stupore. “Ma che nome originale!”, esclamò una volta la bibliotecaria della cittadina di villeggiatura dove andava mio padre.
“È un nome ebraico, si trova nella Bibbia”, era l’informazione che mio padre dava alla signorina e agli altri, che lo volessero ascoltare o meno. Un giorno, sull’autobus, i boccoli biondi della mia sorellina suscitarono una vera e propria esplosione di entusiasmo da parte di un passeggero: “Ecco una vera bambina slava!”. “Peccato solo che sia figlia di ebrei”, gli rispose imperturbabile mio padre. L’evidente ostilità con cui mio padre guardava a possibile cambiamento di nome si lega certamente alla tradizione ebraica.
Nella Bibbia queste trasformazioni avvengono per volontà divina e solamente in momenti di passaggio: Sarai riceve il nome di Sara dopo che Abramo si è circonciso, Giacobbe dopo aver combattuto con l’angelo: “Non ti chiamerei più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini” (Genesi 32, 29). Per gli ebrei il nome è parte integrale del bagaglio spirituale dell’uomo, e ciò non soltanto durante la vita, ma anche dopo la morte. Gli ebrei ashkenaziti non danno mai al figlio il nome di un parente ancora in vita: il Malach ha-mavet, l’angelo della morte, potrebbe per sbaglio portar via il bambino al posto del più adulto omonimo. I sefarditi scelgono con impegno ancora maggiore il nome dei propri figli, evitando con cura quelli che potrebbero essere portatori di sventura. In entrambe le tradizioni il nome si cambia estremamente di rado.
Nella maggior parte dei casi si tratta di un cambiamento temporaneo, ad esempio nell’evento di una malattia grave o di un’altra minaccia alla sopravvivenza. Il cambio di nome avviene insieme al rituale destinato a confondere l’angelo della morte riguardo l’identità del moribondo. Se diamo invece al bambino il nome di un parente defunto speriamo che ne erediti le qualità e ne moltiplichi le buone azioni. Ricordiamoci però che, come si legge nel prospetto della Yahrzeit Organization, “dare al proprio figlio un nome ebraico non basta a farne un ebreo, significa solamente che abbiamo dato un nome ebraico a un bimbo ebreo”.

Bella Szwarcman-Czarnota, Pagine Ebraiche, dicembre 2011