rav Della Rocca: “L’ansia del controllo ci porta lontani dalla sostanza del dibattito”
L’aleftav di ieri del rav Riccardo Di Segni e il contorno di commenti sulle vicende di questi ultimi giorni mi hanno suscitato alcune riflessioni. Mi sono chiesto se non sarebbe più opportuno concentrarsi sulla sostanza dei complessi dibattiti che stanno animando la vita dell’ebraismo italiano, anziché angosciarsi a verificare le credenziali dell’interlocutore.
La professoressa Eveline Goodman-Thau non ha bisogno di presentare certificati di buona condotta, e, per la sua rispettabile biografia, non credo sia neppure interessata a dare giustificazione della sua storia e della propria attività. Ricade su di noi invece il dovere di tutelare i nostri ospiti, non causare loro imbarazzi e umiliazioni. O ci dimostriamo all’altezza della situazione o è inevitabile sprofondare nell’isolamento e nel provincialismo.
Il dipartimento Educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha invitato l’autorevole studiosa a Trieste, come intellettuale, a un corso di formazione per leader a parlare di temi come il ruolo dell’ebraismo europeo. Successivamente, la professoressa ha partecipato a un dibattito a Milano sulla figura della donna nel mondo ebraico assieme ad altre quattro donne di diversa estrazione culturale e religiosa. Entrambe le tematiche esulano dai compiti e dai ruoli istituzionali. Del resto, la cultura e il sano dibattito che Eveline Goodman-Thau ha stimolato non possono essere soffocati da una lettura parziale della sua storia e del suo percorso. La professoressa Goodman-Thau, oltre a essere docente di filosofia ebraica, è una eclettica intellettuale, che, nel 2000, ha conseguito a Gerusalemme una Teudat Horaha (autorizzazione all’insegnamento della Torah) con il rav Chipman, rabbino ortodosso e allievo del celebre rav Jehuda Ghershuni. Ha in effetti esercitato per breve tempo il ruolo di ministro di culto in una sinagoga liberal di Vienna, e per questo dice pubblicamente di aver fatto Teshuvah. Ma non è nostro compito giudicare i suoi percorsi personali. Comprendo e rispetto le preoccupazioni di molti, rabbini e non, nelle nostre Comunità su questi temi. Credo tuttavia che se continuassimo a eludere questo confronto correremmo il rischio di essere marginalizzati e di non far comprendere appieno le nostre ragioni. Quando non si ha nulla da nascondere e si vive la propria identità in modo solido e sereno ci si può confrontare con chiunque senza timori. Non si possono giudicare le persone solo per sentito dire o per quanto si legge su un sito internet.
Rav Di Segni richiama giustamente al dovere di comportarsi in conformità alle regole condivise. E tuttavia, non basta il controllo dei titoli rabbinici, talvolta millantati anche nel nostro mondo ortodosso. Si dovrebbero anche controllare i formatori, gli insegnanti delle scuole, i controllori della kashrut, così come molti dei nostri rappresentanti politici, la cui nomina è sottoposta al vaglio dei rabbini capo. Sarebbe pretestuoso chiedersi quanti di questi protagonisti del passato e del presente abbiano la “riforma” nel loro animo? E, magari, nella loro stessa prassi quotidiana? E tutti questi si sono creati dal nulla o li ha prodotti una istituzione riconosciuta? E come, e perché? Si dovrebbero poi controllare anche i risultati dei vari percorsi di ghiùr seguiti e riconosciuti, per vedere, a distanza di tempo, quale ne sia l’effettiva e reale rispondenza ai requisiti iniziali. Ci si aspetta d’altro canto da coloro che conducono le nostre Comunità un controllo più vigile su quelli che, per scopi non chiarissimi, cercano di delegittimare con la diffamazione le istituzioni e chi per esse lavora allo scopo di farle uscire dalla desolazione culturale e dal puro formalismo religioso. Perché queste persone non si dichiarano sui giornali, perché non si confrontano a viso aperto nelle tante occasioni nazionali a cui l’Ucei dà vita? Perché nascondersi dietro figure e paraventi istituzionali, diffondendo disinformazione e calunnie? Il primo controllo, come insegna la nostra tradizione, dovrebbe essere quello che esercitiamo su noi stessi. E il monito, è superfluo dirlo, dovrebbe essere accolto soprattutto dagli stessi controllori.
rav Roberto Della Rocca
direttore del dipartimento Educazione e cultura
Unione delle Comunità Ebraiche Italiane