…innovazione

Un gruppo umano se ha al proprio interno conflitti culturali, che non necessariamente coincidono con conflitti per il potere, allora ha più di qualche chance per pensare di avere un futuro. Di solito è un indicatore da non disprezzare. Non è solo il numero a consentire o meno che si apra quel confronto. Anche la curiosità, ci deve mettere del suo. Penso di sapere, senza presunzione, quale sia una possibile obiezione: senza mantenere, innovare rischia di essere solo un’operazione distruttiva. C’è del vero anche in questo. Ma negli ultimi cinquanta anni molte cose sono cambiate nel mondo ebraico italiano (a voler essere precisi si potrebbe dire almeno negli ultimi cento anni, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo). Non era anche quella un’operazione condotta in nome della necessità di una rottura? Ovvero della necessità che diverse e nuove forme della riflessione entrassero nel sapere diffuso? Ed era un’operazione di potere o nasceva prima di tutto dal percepire che un ciclo culturale mostrava i segni di usura e occorreva innovare? Credo che la seconda caratteristica fosse vera, o almeno prevalente. E innovare in quel caso significava immettere nuovi testi, far circolare nuove voci, creare nuove opportunità di scambio e di confronto. In breve allargare e costruire reti e luoghi. Dietro, ogni volta c’erano anche l’affanno e l’ansia per il domani. Ma c’era anche la consapevolezza che solo andando oltre si poteva provare a essere nel mondo. Non è solo un problema degli ebrei, e non è solo un problema che riguarda le minoranze.

David Bidussa, storico sociale delle idee