L’unico vero problema

Lo “tsunami diplomatico” su Israele, preconizzato da molti per l’autunno, si è risolto per il momento in poca cosa. Lo status palestinese all’Onu non è stato elevato, soprattutto per l’insipienza o piuttosto l’estremismo diplomatico dell’Autorità Palestinese, che ha presunto troppo delle proprie forze e ha scommesso sul tutto-o-niente chiedendo il pieno riconoscimento come Stato sovrano membro e rifiutando qualunque soluzione di compromesso. L’ammissione all’Unesco si è rivelata una vittoria di Pirro per l’organizzazione e in fondo anche per l’Anp, che ha scontentato ancora una volta quella che si presumeva poter essere la sua grande protettrice, l’amministrazione Obama. Le numerose minacce turche sono rimaste per ora sulla carta. I rapporti con l’Egitto sono gelidi (o se si vuole incandescenti, visto che il gasdotto, il principale legame economico fra i due paesi è stato fatto saltare in aria da terroristi otto volte quest’anno), ma non sono degenerati in scontro aperto. Grazie alla gestione oculata e lucida di Netanyahu Israele sembra essere uscito per ora senza danni dall’anno del grande trambusto in Medio Oriente.
Certo però la minaccia iraniana è sempre più attuale e la comunità internazionale non può e in buona parte non vuole farvi fronte. E il calderone dei paesi arabi continua a ribollire, ambiguamente alimentato dall’Occidente, anche se è sempre più chiaro che ciò che vi si cuoce è un integralismo islamico che di moderato ha solo il nome. Per l’Occidente la minaccia è globale, ma sembra lontana; per Israele è chiaro invece che il fronte dell’odio militante sta conquistando uno per uno anche paesi che ne erano rimasti abbastanza al riparo, come Tunisia e Marocco, ed erodendo tutte le possibilità di mediazione politica. L’aspetto più preoccupante è il riemergere dell’anima revanscista della politica palestinese, la stessa che portò alle convulsioni suicide e omicide chiamate “intifade”, cioè letteralmente “scrolloni”: accessi di odio e di intolleranza quasi animale, come denuncia anche il nome. In tutto il mondo islamico le politiche e i sondaggi dicono lo stesso: che, costi quel che costi, non vi è la minima disponibilità ad accettare uno Stato del popolo ebraico. Le tattiche sono diverse e possono includere anche dei momenti di trattativa, o piuttosto la loro simulazione o negazione, ma la “soluzione finale” è la stessa, l’eliminazione degli “ebrei” (la distinzione fra israeliani ed ebrei, coltivata dalla pubblicistica occidentale anche di parte ebraica, è sostanzialmente ignorata nel mondo islamico).
E’ una situazione che richiede una guida abile e lucida, come quella dell’attuale governo israeliano, ma che impone anche una riflessione anche a tutto il mondo ebraico. Le illusioni di Oslo vanno lasciate cadere, non esiste, fuori dal mondo dei puri desideri, la possibilità di una pace nel breve ma anche nel medio periodo. E’ possibile che presto scoppi una guerra, per mano di Hezbollah, di Hamas, per via del nucleare iraniano o per altre ragioni; è anche possibile che le cose vadano avanti come ora, con una situazione che bisogna definire guerra d’attrito. E’ un conflitto continuo a bassa intensità che si svolge su molti fronti: il terrorismo dei razzi da Gaza, delle infiltrazioni, degli attentati “locali” in Giudea, Samaria e a Gerusalemme, come ce ne sono stati tanti e poco considerati negli ultimi mesi; la guerra diplomatica, quella dei media, quella delle occasioni artificiali di scontro mediatico come “flottiglie” e marce; le minacce continue di potenze islamiche come Iran e Turchia, eccetera. Quel che oggi non appare proprio possibile è un allentarsi della tensione, quel franco riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele come Stato del popolo ebraico che è la premessa necessaria della pace.
Guerra o mezza guerra, insomma, per tutto il tempo che possiamo umanamente prevedere o calcolare. La pace non è oggi nell’ordine delle possibilità reale, è una parola che ha solo referenza propagandistica. Quel che accade e che si può prevedere è la continuazione di un braccio di ferro in cui l’elemento decisivo è la capacità di resistere di fronte a una potenza soverchiante, sul piano dei numeri, se non ancora dell’armamento, ma anche dell’opinione pubblica e della comunicazione. Questi ultimi fronti toccano direttamente anche noi, ebrei della diaspora: siamo e saremo capaci di reggere questa situazione, di fare la nostra parte per scongiurare la distruzione del nostro Stato e di buona parte del nostro popolo? E prima di tutto: siamo abbastanza lucidi da renderci conto che questo è il problema, l’unico grande vero problema della nostra generazione ebraica?

Ugo Volli