Nascere in Italia

Un paese è ingiusto se impedisce a chi nasce sul suo territorio di essere un cittadino. È il caso dell’Italia, che fonda la sua legislazione sullo ius sanguinis e non sullo ius soli: privilegia cioè i discendenti degli emigranti rispetto agli immigrati. Col risultato assurdo che i miei cugini israeliani, i cui nonni già sono nati in Israele, hanno il passaporto italiano, mentre chi lavora e paga le tasse come noi non può neanche scegliere il proprio sindaco.
Per ovviare a questa contraddizione inaccettabile la Cgil sta promuovendo una campagna in grande stile dal titolo «L’Italia sono anch’io», con l’ambizione di sostenere due leggi di iniziativa popolare per il riconoscimento dello ius soli e per la concessione del voto amministrativo agli stranieri. Questo sforzo di sensibilizzazione è stato recentemente sottolineato e apprezzato anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
La mia idea è che su questo tema si debba essere realisti e disposti alla mediazione. La legge attuale è sbagliata, farraginosa e arbitraria, visto che la cittadinanza, anche in presenza dei requisiti richiesti, è comunque concessa discrezionalmente dal Ministro. Siccome però quando si parla di immigrazione si toccano paure profonde, proviamo a formulare, o a recepire (negli anni si sono succedute varie proposte), un compromesso onorevole.
Chi nasce qui deve essere cittadino se i genitori sono residenti da vari anni (cinque?) e comunque se ha compiuto il ciclo di studi; la cittadinanza, in assenza di ostacoli espliciti, deve essere automatica dopo cinque anni di residenza in presenza di un reddito sufficiente e di una formazione minima necessaria (linguistica e civica); gli immigrati residenti devono accedere all’elettorato attivo amministrativo. Il governo Monti ha di rimettere in moto l’Italia. La questione della cittadinanza, una questione di elementare giustizia, va affrontata con urgenza.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas