Dipendenti di se stessi

Fa piacere capitare per caso alla scuola ebraica dopo aver trascorso tra quelle mura molti anni prima come allieva e poi come insegnante: scritte in ebraico da tutte le parti, il calendario delle feste, disegni e foto relativi a Israele o alla vita ebraica e molto altro. Ci si sente a casa, e in effetti è così, perché la scuola appartiene a tutti gli ebrei della comunità. A pensarci bene, però, era proprio questa sensazione di appartenenza a rendere faticosa la vita lavorativa: quando si è a casa propria ci si sente responsabili di tutto, non si sta a guardare l’orologio ma si lavora finché serve; a casa d’altri ci si sente forse un po’ più a disagio ma si sta più tranquilli. E’ vero che anche una scuola pubblica appartiene a tutti i cittadini (e infatti anche lì si finisce per lavorare molto più di quanto sia teoricamente richiesto), ma in una comunità ebraica, soprattutto se media o piccola, il legame tra i singoli ebrei e le loro istituzioni è molto più immediato, e più forte la sensazione di essere dipendenti di se stessi, un padrone attento ed esigente contro cui si fatica a sindacalizzarsi.
E’ giusto affermare che nelle nostre comunità bisogna distinguere meglio il ruolo dei professionali da quello dei politici, ma spesso le cose si complicano perché alcuni professionali sono in una certa misura anche politici: non solo votano per eleggere i propri superiori, ma talvolta sono membri dei gruppi che si candidano a guidare le comunità, partecipano alla stesura dei programmi, intervengono nelle assemblee comunitarie e in quelle dei gruppi a cui appartengono, scrivono sui giornali ebraici. Ciascun ebreo che lavora per una comunità ebraica o per l’Unione deve fare attenzione a distinguere la propria parte professionale da quella politica, e ogni tanto, anche se non è facile, deve mettere a tacere il politico per dare al professionale un po’ di fiato. Si può anche entrare in casa propria e decidere che questa volta non tocca a noi mettere in ordine.

Anna Segre, insegnante