Le forze in gioco nello scacchiere mediorientale
Gli esiti delle elezioni maghrebine, da ultimi quelli in Egitto, dove la fratellanza musulmana raggiunge il 36 per cento dei voti e i partiti islamici, nel loro complesso, varcano la soglia dei due terzi dei consensi, sono il prevedibile risultato del tumultuoso mutamento che è in atto da un anno in tutta la regione mediorientale. Un tassello ancora mancante è quello libico, così come la crisi siriana deve ancora produrre tutti i suoi effetti, ma non è poi troppo difficile prevedere che se si andasse, prima o poi, a riscontri elettorali i risultati non differirebbero troppo, nell’uno come nell’altro caso. L’effetto domino è in atto, varcando le soglie delle singole specificità nazionali e regionali. Perché lo sbocco delle sollevazione ha assunto tale fisionomia e, in prospettiva, cosa ce ne potrà derivare? Un elemento che va posto in rilievo, dinanzi alle perplessità se non ai timori che questi risultati alimentano, è che l’islamismo espresso dai singoli partiti non ha una sola radice. Non siamo in presenza della realizzazione di un progetto continentale o di natura geopolitica bensì della manifestazione dell’intrinseca debolezza di ogni forma di organizzazione politica che non abbia a referente l’identità musulmana. Quest’ultima non è un pieno di valori né, tanto meno, di progetti ma una sorta di coperchio che si pone su società in ebollizione, destinate a vivere ancora i tormenti di una modernità esitante, che le ha per più aspetti punite. In sostanza, gli islamisti non vincono perché hanno qualcosa da dire ma perché le forze che, a vario titolo, potremmo definire “laiche” sono afone e incapaci di formulare proposte credibili. Non di meno i partiti fondamentalisti sono quelli che in anni di regimi oppressivi, autocratici, vessatori hanno saputo mantenere una qualche ramificazione sociale, prima ancora che politica, usando la religione come copertura. La vicenda di Gaza, tra la fine degli Settanta e il 2006, ne è un riscontro per più aspetti. Il consenso ai partiti “religiosi”, diventando così una sorta di bene rifugio, in mancanza di élite alternative, sembra essere il male minore. Il voto non ha quindi una natura rivoluzionaria, così come forse avrebbero aspirato una parte dei rivoltosi, bensì conservatrice. E deriva, tra le altre cose, da due fattori: il primo di natura interna ai singoli paesi, laddove la matrice comune è la forbice crescente tra l’evoluzione demografica e la collocazione nel mercato internazionale del lavoro; il secondo rimanda al conflitto tripartito che è in gioco tra la Turchia neo-ottomana di Erdogan, l’Arabia Saudita wahhabita e il pencolante Iran. Dietro ci sta il gruppo dei paesi del Bric, il consesso delle nazioni a nuovo sviluppo avanzato, che stanno misurando la dimensione della crisi egemonica americana, la superpotenza oramai assente dal Mediterraneo, e l’inerzialità politica dell’Unione Europea, che potrebbe precorrerne lo sfaldamento. Dovremo fare i conti, quindi, con le forze nazionali, ora in campo, ma anche con la Russia, la Cina, il Brasile e l’India, che conteranno sempre di più nel nostro futuro di paesi già ricchi e, adesso, sempre più squattrinati.
Claudio Vercelli, storico