Etica e politica

Dell’intensità dei lavori dell’ultimo Moked annuale organizzato dall’UCEI, svoltosi a Napoli dall’8 al 10 dicembre, così come della ricchezza dei contenuti emersi dal dibattito congressuale, della vastità degli argomenti affrontati, della profondità e dell’importanza degli stimoli e delle sollecitazioni raccolte, è stata data ampia testimonianza negli ultimi numeri della Newsletter. Aggiungiamo un sincero sentimento di ammirazione per l’efficienza dell’organizzazione e la cordialità e il calore dell’accoglienza – merito di tutti gli organizzatori, a cominciare dal Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione, rav Roberto Della Rocca, e poi del presidente dell’UCEI, Renzo Gattegna, del responsabile del Progetto Meridione, rav Gadi Piperno, del rabbino capo di Napoli e dell’Italia meridionale, Scialom Bahbout e del presidente della Comunità ebraica di Napoli, Pierluigi Campagnano -, che hanno permesso a tutti i numerosi partecipanti di vivere un’esperienza davvero particolare, sul piano culturale, spirituale e umano.
A conclusione dei lavori, la mia personale impressione è che il rapporto tra etica e politica, dal punto di vista ebraico, al giorno d’oggi, può essere valutato su tre piani distinti.
Il primo livello è quello della vita delle diverse Comunità e della conservazione e trasmissione, attraverso le generazioni, dell’identità e dei valori ebraici. Un compito, nel momento attuale, reso difficile da molti, noti problemi – secolarizzazione, esiguità numerica, completa integrazione nella società dei gentili ecc. -, ma la cui importanza appare, tuttavia, particolarmente sentita, proprio per la capacità dimostrata dalle Comunità Ebraiche di rappresentare – anche per molti non ebrei – un punto di riferimento etico, un piccolo, prezioso scoglio fermo in un mare di dubbi e incertezze. Una forza di attrazione e di richiamo che si traduce, da una parte, in un sensibile aumento del numero di ‘ghiurìm’ in corso, ma anche in una crescente attenzione da parte di molti ‘goyìm’, desiderosi non di ‘entrare’ nell’ebraismo, ma semplicemente di conoscerlo.
Ma, naturalmente, gli ebrei sono chiamati ad agire non solo all’interno delle loro Comunità di appartenenza, ma anche, e soprattutto, come cittadini, nella società intera, nel mondo. Qui, naturalmente, sorge la delicata questione di come tradurre le basi etiche dell’ebraismo in scelte politiche che le rispecchino o, almeno, non le contraddicano palesemente. Si tratta, evidentemente, di valutazioni soggettive, che inducono gli ebrei italiani a differenziarsi nelle specifiche opzioni. Il problema che sorge, qualsiasi scelta si sia fatta, è fino a che punto sia possibile esercitate l’arte del compromesso e dell’accettazione del “male minore”, senza tradire i cosiddetti “valori irrinunciabili”. Perché, com’è noto, in qualsiasi schieramento politico un ebreo italiano sarà costretto a fare i conti con delle realtà non gradevoli: a destra la presenza di neofascisti non pentiti, e il periodico riaffiorare di umori antisemiti “vecchio stile”; a sinistra, la diffusa antipatia, o peggio, verso lo Stato d’Israele; al centro, il generale appiattimento sulle posizioni del Vaticano. E rifiutare “in toto” la politica, per preservare la ‘purezza’ di una presunta “etica ebraica”, sarebbe, in ogni caso, sbagliato.
Ma c’è anche un terzo livello di confronto, che è quello, difficile e doloroso, della difesa, del contrasto contro l’altrui malevolenza. In che modo, attraverso quali mezzi è lecito – anzi, doveroso -, sul piano etico, difendere l’ebraismo stesso dal mondo esterno, nel momento in cui questo mondo appare ostile, minaccioso, nemico? Questo problema, com’è noto, si è posto sempre, nei secoli, nell’ebraismo della diaspora, nei ghetti e negli shtetl, in tutte le epoche delle persecuzioni e delle discriminazioni. Oggi, per fortuna, questi tempi paiono, in gran parte, superati, ma alcuni fenomeni – come, per esempio, l’impressionante dilagare dei siti razzisti e antisemiti – continuano a rappresentare un preoccupante segnale d’allarme, che appare ampiamente sottovalutato dalle pubbliche autorità. E, com’è noto, nubi oscure paiono addensarsi sui cieli della risorta patria ebraica. È possibile, dopo la Shoah, credere di nuovo in un rapporto tra etica e politica che sia condiviso tra ebrei e gentili? Esiste, alla base del dialogo con il mondo, una lingua comune, un comune orizzonte di senso e di princìpi? O si tratta, come nella biblica torre, di un dialogo tra sordi, di un mero sovrapporsi di lingue diverse? Della mera illusione, come ebbe pessimisticamente a notare Gerschom Scholem, di un “amore impossibile, e a senso unico”?
È questa, a mio avviso, la domanda principale posta dal nostro tempo.

Francesco Lucrezi, storico