Israele e il blocco emotivo
Vorrei esprimere un paio di parole di commento su questa breve annotazione pubblicata il 27 dicembre, sulla newsletter, da Dario Calimani: “Un amico di lunga data mi chiede, da Israele, perché l’ebraismo italiano veda le cose israeliane in modo così monolitico, sempre sulla difensiva. La cosa non dà di Israele una visione oggettiva e non lo aiuta a riflettere su se stesso, anzi, lo lascia nel suo isolamento. Io gli rispondo chiedendogli perché gli israeliani che la pensano ‘diversamente’ non ci aiutino a chiarirci le idee esponendo sulla nostra stampa la loro prospettiva, facendoci uscire dal nostro isolamento e dal nostro blocco emotivo”.
La mia impressione, francamente, non coincide con quella riferita da Calimani. I pareri su Israele, formulati nell’ambito dell’ebraismo italiano, non mi paiono affatto monolitici, né mi sembra che siano sempre improntati a una difesa acritica dell’operato dei vari governi israeliani. Mi pare, anzi, che i giudizi critici abbondino, tanto da essere, probabilmente, prevalenti rispetto a quelli di tipo eminentemente difensivo. Né, d’altronde, mi sembra che gli israeliani “che la pensano diversamente” non facciano sentire la loro voce. Anche in questo caso, mi sembra, anzi, che accada esattamene il contrario, nel senso che i nostri giornali ospitano con grande frequenza i commenti di artisti e intellettuali israeliani, quasi sempre (ma metto il ‘quasi’ per mero scrupolo) impostati su posizioni di dissenso, spesso con toni fortemente polemici, rispetto alle politiche governative. Si tratta, per carità, di commentatori di elevata statura, le cui opinioni leggo sempre con la massima attenzione e il più grande rispetto, ma non posso non notare un effetto deformante sull’informazione determinato da una scelta dei commenti così orientata, giacché il lettore comune è inevitabilmente spinto a farsi l’idea di un governo israeliano sempre nel torto. Se lo dicono tutti i migliori intellettuali del Paese, non può non essere vero. Niente di grave, d’accordo: sempre meglio delle critiche intelligenti piuttosto che degli apprezzamenti sciocchi.
Quanto all’atteggiamento difensivo, io credo che, in tutto il mondo, tra ebrei e gentili, amici e nemici di Israele o gente del tutto indifferente alle sue sorti, non ci sia nessuno che possa negare che Israele corra dei pericoli. Di apprestare una difesa contro questi pericoli, ovviamente, i nemici e gli indifferenti non si prendono cura, mentre gli amici, giustamente preoccupati, si dividono sostanzialmente in due grandi gruppi. Al primo si possono ascrivere quelli che ritengono che i pericoli abbiano un’origine essenzialmente ‘esterna’, per cui Israele (possibilmente, con a fianco i propri amici) dovrebbe soprattutto impegnarsi, appunto, a difendersi, sul piano politico, diplomatico e, purtroppo, militare. Al secondo gruppo appartengono invece coloro che reputano che almeno buona parte dei problemi derivi da errori, passati o presenti, fatti proprio dai governanti israeliani, per cui sarebbe opportuna e necessaria una correzione di rotta, in modo da determinare delle modifiche positive sul territorio. Personalmente, mi iscriverei al primo gruppo, ma, sia chiaro, unicamente nel senso che non credo affatto che possano essere eventuali miglioramenti di condotta da parte di Israele a determinare un cambiamento di posizione dei suoi avversari: gli atti di prevaricazione e intolleranza, da parte di alcuni esponenti del mondo ortodosso, recentemente denunciati, per esempio, sono certamente gravi, da condannare e, per il futuro, prevenire. Ma nessun nemico di Israele lo è per questo motivo, o cesserà di esserlo per un più corretto comportamento dei religiosi o delle autorità israeliane.
Se, poi, l’opinione pubblica ebraica nella diaspora appare, complessivamente, più “filoisraeliana” di quella interna a Israele, ciò è facilmente spiegabile. Israele è una forte e vivace democrazia, ed è giusto e naturale che l’operato del governo sia costantemente posto sotto pressione dal severo giudizio della cittadinanza. Ma questo è un compito che spetta, appunto, ai suoi cittadini, non ad altri. Pienamente da sottoscrivere, sul punto, mi sembra l’invito formulato da Amos Oz, e raccolto dall’Ambasciatore Gideon Meir, nell’intervista di commiato apparsa sul numero di dicembre di Pagine Ebraiche: “Vorrei fare mio questo appello a chi sente il bisogno di commentare le scelte e i problemi di Israele nei dettagli: venite in Israele, fate sentire la vostra opinione in Israele, e non da lontano”.
Francesco Lucrezi, storico