Quattrocentonovantotto nomi
Nell’abisso della Shoah quattrocento deportati torinesi paradossalmente sembrano quasi pochi (alcuni anni fa un allievo mi aveva addirittura chiesto se per caso intendessi dire quattrocentomila). Difficile, per i ragazzi che studiano i grandi numeri della storia, capire cosa significano quattrocento vite interrotte, quattrocento famiglie lacerate, quattrocento storie con un sapore amaro, di fughe finite male, di respingimenti alla frontiera svizzera, di solidarietà mancate, delazioni, tradimenti o altro.
Il 10 di Tevet ci aiuta almeno in parte a comprendere le dimensioni della catastrofe: la lettura di tutti i nomi (a Torino, tra deportati, uccisi, morti nella Resistenza, includendo anche quelli di altre città piemontesi, se ne leggono quattrocentonovantotto) richiede quasi mezz’ora, un tempo che pare lunghissimo se confrontato con la normale durata della preghiera pomeridiana, e reso ancora più lungo dall’uniformità della lettura: non la solita alternanza di parti cantate o recitate sottovoce, in piedi o seduti; solo lunghissimi minuti di nomi, uno per uno in ordine alfabetico, scanditi nel silenzio più assoluto. A leggerli in una scuola si occuperebbe un’intera ora di lezione, e forse aiuterebbe a capire cosa è stata la Shoah (anche in un luogo “privilegiato” come l’Italia) più di molti discorsi.
Mi pare giusto che sia stata prevista la stessa cerimonia con cui solitamente si ricordano le persone di cui ricorre l’anniversario. Uno scarto rispetto alla normalità si nota di più rispetto a una novità completa, e trasmette maggiormente l’impressione di trovarsi di fronte a un’anomalia, a qualcosa che non funziona: leggere quattrocentonovantotto nomi al posto di uno o di pochi, dilatare i tempi di un rito che di solito dura pochi minuti, mostra la gravità irreparabile di ciò che è successo più di quanto lo farebbe una cerimonia inventata ad hoc. D’altra parte se possiamo ricordare chi è scomparso nella Shoah con le stesse modalità con cui ricordiamo tutti gli altri, e se lo possiamo fare proprio il 10 di Tevet, digiuno già previsto nel nostro calendario, significa anche che, nonostante tutto, non sono riusciti a distruggerci.
Anna Segre, insegnante