Israele e gli Haredim

Penso che sia importante raccogliere l’invito di Guido Vitale a discutere del problema del rapporto fra Israele e gli haredim che si è imposto all’attenzione pubblica in questi ultime settimane. Anche se sperabilmente non dovremo assistere subito a nuovi episodi intollerabili come l’aggressione a una bambina “vestita troppo immodestamente” e la sfilata di persone travestite da prigionieri dei Lager nazisti per protestare contro lo Stato ebraico, il problema dell’insofferenza di settori “ultraortodossi” alle regole della società israeliana è destinato a durare e a rinnovarsi. Non credo però che il problema sia solo la “modestia” come valore ebraico: nessuno in Israele, credo, ha tentato di proibire pratiche di modestia sia pur molto lontane dalle abitudine occidentali come la parrucca per le donne sposate o gli indumenti caratteristici degli haredim. Sono loro – o meglio alcuni di loro – a voler imporre a tutti gli altri certe loro abitudini: come gli autobus e i marciapiedi separati per genere o la proibizione della voce femminile nelle cerimonie militari.
Vi sono stati negli ultimi tempi anche altri episodi che non riguardano questo tema, come i disordini per impedire l’apertura di un parcheggio a Gerusalemme funzionante anche a Shabbat con personale non ebraico, l’esistenza di squadre che si autoattribuiscono la “difesa della virtù” in certi quartieri, le aggressioni al libraio di Meah Shearim che rifiutava la supervisione “morale” di uno di questi gruppi, i vandalismi a difesa di una donna messa sotto inchiesta per maltrattamenti ai suoi figli, le aggressioni a chi festeggiava il giorno dell’indipendenza, l’appoggio espresso da alcuni ad Ahmadinedjad o Hamas. Credo che il discorso vada sviluppato sul tema più generale del rapporto fra Stato di Israele e minoranza haredì.
Due punti vanno sottolineati. Il primo è che accade spesso che per diffamare l’intero popolo ebraico si prenda come obiettivo una sua parte. E’ accaduto in Germania prima della Shoah a proposito degli ebrei orientali (l’opera di Joseph Roth e di Martin Buber non valse a far cessare l’incitamento all’odio), spesso è accaduto a proposito dei lavori finanziari svolti da una parte della popolazione ebraica. Accade oggi largamente anche a proposito di “coloni” e di “ultraortodossi”, che da buona parte della stampa sono stati confusi fra loro e diventati mostri, “minacce alla democrazia israeliana”, ragioni per mettere Israele sullo stesso piano dell’Iran. Mi sembra che nessuno nel mondo ebraico dovrebbe prestarsi a simili demonizzazioni.
Il secondo è che il sionismo è nato laico, in polemica con il “vecchio ebreo” dello shtetl. Ma tutto il sionismo storico, da Theodor Herzl a David Ben Gurion ha cercato come politica costante di ottenere l’appoggio di settori religiosi, anche a costo di sacrificare aspetti importanti della laicità. A questo appello ha risposto una parte importante del mondo religioso, a partire da Rav Kook fino all’ebraismo della diaspora, che si è impegnata nell’impresa della ricostruzione dello Stato ebraico – mentre altri settori consistenti soprattutto provenienti dal chassidismo più tradizionale si sono opposti violentemente all’impresa. Israele ha comunque fatto notevoli sacrifici per consentire a chi volesse vivere un’esistenza di puro studio della Torah la possibilità di farlo: ha concesso loro esenzioni dal servizio militare, sostegno economico, abitazioni e altre strutture. Lo spazio riservato alla vita religiosa dalla fondazione dello Stato di Israele non è stato solo il frutto di un calcolo elettorale o politico, ma il tentativo di ricomporre nella terra dei padri la pluralità dell’ebraismo, senza escludere chi voleva interpretare la continuità e la memoria della tradizione. La scommessa di cui oggi non possiamo dire di conoscere il risultato, era di arrivare prima o poi a un’integrazione. Negli ultimi decenni la parte non haredì di Israele si è molto evoluta, dal semisocialismo agricolo dei primi decenni dello Stato a una società all’avanguardia della tecnica e dell’economia dell’informazione, con tutti i problemi che ne seguono: la distanza è dunque aumentata per certi aspetti, anche se in modi meno evidenti si è creato un intreccio sociale positivo: nel lavoro (non tutti gli haredim non lavorano), nel servizio militare (non tutti lo evitano), nella disseminazione della vita quotidiana. Politiche opportune, per esempio su un curriculum scolastico minimo obbligatorio per tutti, possono favorire un’ulteriore integrazione.
Anche se ne deploro certi aspetti, come l’inesistenza di matrimoni civili e la discriminazione ai danni di certe tendenze religiose ebraiche, a me pare che questo tentativo di integrazione debba essere continuato, che l’affermazione di Israele come Stato della nazione ebraica comporti necessariamente un impegno nei confronti della nostra religione. Al fondo di questo problema vi è il nesso certamente complesso fra popolo ebraico e religione ebraica. Per millenni, dispersi per il mondo, la Torah è stata la nostra “patria portatile”, come si espresse Heine: la Torah intesa come pratica di vita, non semplicemente come etica e fede monoteista. E’ un certo modo di vivere che ci ha unificato e preservato come popolo. Difficile negare che il mondo haredì sia il più attaccato oggi alla conservazione di quello stile di vita, anche al di là delle regole esplicite dell’Halakhah, e anche fissandolo stranamente (per esempio negli abiti sette e ottocenteschi) a un momento storico preciso e non particolarmente preciso dell’esilio.
Credo perciò che sia sbagliato demonizzare l’intero mondo haredì, che fra l’altro è particolarmente frastagliato e suddiviso. E’ urgente una capacità politica, ma ancor prima intellettuale, di distinguere fra coloro che si sono rifugiati in un rifiuto settario assoluto delle scelte del popolo ebraico (qualcuno lo paragona per l’isolamento e la presunzione di detenere da soli la purezza alle posizioni degli antichi esseni) e coloro che vogliono mantenere il legame con i costumi antichi, oltre che naturalmente con un’interpretazione particolarmente rigorosa della Legge. Il riconoscimento della legalità dello Stato e delle sue norme, l’accettazione della libertà di comportamento di coloro che vivono in maniera diversa il loro ebraismo, il rifiuto della violenza di gruppo, la condivisione del destino storico del popolo ebraico e dunque il patriottismo nei confronti dello Stato di Israele mi sembrano i criteri ovvi di tale distinzione.
Vivendo noi in un paesaggio culturale che non sa quasi nulla dell’ebraismo, credo che a noi ebrei della Diaspora tocchi il dovere di chiarire a tutti continuamente che in Israele non esiste solo un modo di seguire la Torah, che oltre agli haredim, vi sono altre correnti altrettanto religiose, anche se si esprimono in maniera diversa. E’ degno di nota per esempio che la bambina molestata a Beit Shemesh non fosse “laica” o estranea all’ebraismo, ma appartenesse a una famiglia datì leumì, sionista religiosa (cioè quel gruppo, di dimensioni analoghe agli haredim, che di solito è demonizzato per il suo impegno religioso verso la terra di Israele: non propenso a evitare il servizio militare, ma al contrario impegnato nella difesa del paese e degli insediamenti oltre la linea verde). L’episodio non è stato un capitolo del conflitto fra religione e laicismo, ma fra due diversi modi di cercare di calare nel quotidiano un’ispirazione religiosa. Vi sono poi in Israele i Modern Orthodox, i vari movimenti “modernisti” dai Massorti ai Reform, la maggioranza della popolazione che vive molto blandamente o per nulla la dimensione religiosa della vita.
In una democrazia moderna tutte queste posizioni hanno diritto di cittadinanza. Nessuno dovrebbe essere demonizzato per i suoi costumi. Il solo limite alla libera espressione non può che essere la libertà altrui e la sicurezza di tutti, dunque la vita dello Stato. Di fatto questo è l’ideale che Israele pratica come qualunque nazione occidentale. Che siano liberissimi di esprimersi anche gli haredim dei movimenti antisionisti più estremi, nemici dello Stato e intenti a denigrarlo con blasfeme pagliacciate come la sfilata in costumi da deportati, è un’ennesima prova di maturità democratica. Che l’aggressione verbale a una bambina per il suo abbigliamento sia respinta dai vertici dello Stato e dall’opinione pubblica, è un’altro sintomo della stessa maturità. Come lo è il fatto che senza incidenti si siano svolte le manifestazioni per contestare gli autobus separati per generi. Insomma Israele ha gli anticorpi per evitare i rischi alla democrazia che alcuni critici interessati vedono nell’esistenza degli haredim. Di più: ha la possibilità, con una politica equilibrata, ponendo condizioni ai privilegi di cui godono questi settori, di cercare di integrarli e di farne una risorsa collettiva: un lavoro lungo e complesso, ma essenziale.

Ugo Volli