Wing, una vacanza per unire

Un gruppo di ragazzi, un albergo tutto per loro, perso tra le montagne, per una settimana. Una voce che all’altoparlante scandisce le giornate, segnalando le attività in programma. La condivisione di molti momenti, cene, partite a carte, feste. La nascita di nuove amicizie e, talvolta, anche di qualche amore. No, non si tratta dell’ennesima edizione del Grande Fratello, ma della Wing (Winter International Gathering), l’annuale vacanza invernale organizzata da associazioni giovanili ebraiche di vari paesi europei tra cui l’italiana Ugei. Quest’anno la Wing si è tenuta a San Sicario, in una struttura nata per ospitare le squadre che hanno partecipato all’Olimpiade di Torino 2006 e che è stata letteralmente colonizzata da centinaia di ragazzi da tutto il mondo. Protagonisti indiscussi racchette e sci, ma non è mancato l’intrattenimento anche per i meno sportivi, frutto di una macchina organizzativa davvero impeccabile.
Forse paragonare questo tipo di evento a un reality show può sembrare un po’ azzardato, anche perché fortunatamente non si viene spiati da nessuna telecamera, ma sicuramente ne condivide alcuni tratti. In primis l’isolamento: per sette giorni tutto ruota solo e soltanto intorno alle circa 250 persone che vi prendono parte. Si viene risucchiati dal vortice di una nuova routine a dir poco frenetica all’interno della quale non c’è spazio ma nemmeno bisogno di porsi la domanda: “Adesso che cosa faccio?”. Partecipare alla Wing è come essere catapultati in una dimensione parallela, in cui il mondo esterno e la propria vita quotidiana non penetrano e vengono temporaneamente dimenticati. C’è un’altra faccia della medaglia, però. Questo momentaneo distaccamento non soltanto dalla propria realtà individuale, ma anche in una certa misura dalla realtà nel senso stretto del termine, genera una sorta di comunanza fra i partecipanti: annulla le diversità e pone tutti sullo stesso livello. E allora l’età, il proprio lavoro, i propri studi, non contano quasi più niente. E, se non si considerano le eventuali difficoltà linguistiche, non conta praticamente più nemmeno la propria provenienza: si genera quindi quello che si può definire un piacevolissimo cosmopolitismo. Tutti uniti semplicemente dal fatto di trovarsi in quella ben precisa situazione e soprattutto di essere giovani. E anche ebrei, naturalmente.
Ed è proprio questa la chiave del successo della Wing: la concentrazione in uno spazio e in un tempo ridottissimi e con un ritmo tanto intenso quanto regolato di esperienze che, a pensarci bene, possono essere vissute in qualsiasi altro contesto. Chiunque infatti può organizzarsi per andare a sciare con gli amici, ballare per tutta la notte o passare il pomeriggio giocando calcio balilla o a briscola. Ma queste stesse esperienze non soltanto non saranno vissute in modo altrettanto intenso, ma soprattutto non saranno il punto di partenza per la costituzione di un gruppo che trova la sua identità proprio in esse.
È vero, al ritorno da una simile vacanza il senso di straniamento è forte. E, complice in questo probabilmente anche la carenza di ore di sonno, tornare alla normalità è difficile. Ci si sente ancora fluttuare in quel vortice. Però quello che si ricorda della Wing, soprattutto ripensandoci dopo aver lasciato passare qualche giorno, non è né l’isolamento né la mancanza di autonomia nella scansione della propria giornata. Ciò che resta sono il senso di appartenenza a un gruppo e tanto da raccontare. E così, di quella vocina tanto molesta che, ad ogni ora del giorno e della notte, invitava attraverso gli altoparlanti i suoi “Dear WINGers” ad unirsi alle attività proposte, si sente quasi la mancanza.

Francesca Matalon